Il fascino della Commedia dantesca ha sedotto molti letterati e poeti dialettali soprattutto a partire dall’Ottocento. Essi ci hanno dato trascrizioni integrali o parziali del poema a volte con intento parodistico.
La recentissima tesi di laurea magistrale di Michele Poli, La Commedia di Dante in dialetto bergamasco, discussa all’ Università degli Studi di Bergamo, Dipartimento di Lettere e Filosofia, Corso di laurea magistrale in culture moderne e comparate, nell’anno accademico 2019-2020, relatore Chiar.mo Prof. Massimo Zaggia, affronta la questione delle trascrizioni in bergamasco del poema dantesco.
Va subito detto che, per quanto è stato possibile accertare, non esistono trascrizioni integrali della Commedia in dialetto bergamasco.
La prima traduzione in bergamasco di cui si abbia notizia, riguardante i primi due canti dell’Inferno, realizzata nel 1864 da Raimondo Manzoni con il titolo Ol Dante a Tor de Büs, è purtroppo perduta. Solo qualche verso sopravvive in una trascrizione successiva a cura di Bortolo Belotti, uomo politico, storico e letterato, celebre soprattutto per La storia di Bergamo e dei Bergamaschi, pubblicata per la prima volta nel 1940 e riproposta con diversi ampliamenti nelle successive edizioni del 1959 e del 1989.
Un’altra traduzione in bergamasco dei primi canti dell’Inferno, con intenti parodistici e di assai incerta attribuzione, compare in un opuscolo a stampa del 1895 edito da Fagnani e Galeazzi.
Nel 1932 Bortolo Belotti, diede alle stampe, per la Società editrice S. Alessandro di Bergamo, i Saggi di traduzione della divina Commedia in dialetto Bergamasco con la proposta di alcuni canti del sommo poeta. In Biblioteca Mai se ne conservano alcuni esemplari: fra di essi, uno appartiene al fondo librario di Rosetta Locatelli (segnatura LOCAR 3.111) con dedica dell’autore all’aviatore Antonio Locatelli; un altro al fondo di Luigi Angelini (ANG 3.387), anch’esso con dedica di Belotti all’ingegnere.
Questa traduzione è preceduta da Considerazioni introduttive sul tradurre Dante in dialetto nelle quali Bortolo Belotti dichiara di voler rifuggire dagli intenti parodistici o, comunque, da traduzioni troppo libere e di optare piuttosto per una fedeltà all’originale con l’inserimento di «moderati ma diretti accenni a cose e a fatti della vita vernacola», senza che ciò porti a trasformare Dante in un personaggio vernacolare o addirittura in una maschera.
Questo approccio porta Belotti a concludere sull’impossibilità di una traduzione integrale in bergamasco del poema dantesco, in particolare per i passaggi che esprimono concetti filosofici elevati, presenti soprattutto nel Paradiso, per i quali il lessico dialettale si rivelerebbe insufficiente a rendere pienamente il significato originale. Viceversa, il dialetto risulta calzante laddove prevalgano i sentimenti terreni come «nell’episodio del conte Ugolino e dell’arcivescovo Ruggeri [nel quale] c’è veramente tanta umanità, tanto amore, tanto odio, tanto patimento, tanta disperazione, da non sembrare strano che ve ne sia anche per un dialetto».
Le Considerazioni restituiscono solo alcuni dei canti tradotti da Bortolo Belotti. Cinque quelli dall’Inferno: il primo (La selva oscura), il terzo (La porta infernale: Caronte), il quinto (Francesca da Rimini), il ventunesimo (Il canto dei diavoli), il trentatreesimo (Il canto del conte Ugolino). Chiude la serie il canto XXXIII del Paradiso che contiene la preghiera di San Bernardo.
La traduzione dei canti, nella quale è sempre rispettata la sequenza di terzine di endecasillabi, è presentata con la versione originale a fronte, aspetto questo che rende più diretto e serrato il confronto.
Ecco come Bortolo Belotti presenta la traduzione dell’inizio del canto III dell’Inferno:
«Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Giustizia mosse il mio alto fattore, fecemi la divina protestate, la somma sapienza e il primo amore. Dinanzi a me non fur cose create, se non eterne; ed io eterno duro. Lasciate ogni speranza, voi che entrate». | «De ché ‘s va ‘n del país di despiràcc, de ché ‘s va eternament in del dulùr, de ché ‘s va in mès al pòpol di danàcc. Me m’à fàcc la giöstésia del Signùr, che töt la pöl quando la öl vergót, col so pós de sapiensa e col so amùr. Al mond, prima de me, gh’era negót Che no ‘l fös in eterno, e chi vé ché, s’i gh’à speranse, i laghe zo ‘l fagòt». |
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