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Esposizione nell’atrio della Biblioteca
dal 12 al 31 gennaio 2004

Rodolfo Invernizzi: Porta solstiziale e H20,
installazioni create nel 2003
presso i Matronei della Basilica di Santa Maria Maggiore in Bergamo
e presso il portico della chiesetta di Arnosto in Valle Imagna

Fotografie di Marco Mazzoleni donate alla Civica Biblioteca

Porta solstiziale – Anta centrale (particolare).

LE OPERE E I GIOCHI
Le improbabili macchinazioni di Rodolfo Invernizzi

“Giochiamo a reliquie” e un format ludico-esistenziale attivato la scorsa estate ad Arnosto, in Valle lmagna.
Si può giocare a spostare dei ”pippini” sul display del cellulare, delle crocette sulla scacchiera della battaglia navale o dei santi da una chiesa all’altra. Purchè tutto sia fatto secondo le regole. Nel primo caso si entra di diritto nel club dei globalizzati, nel secondo in quello deinostalgici scolarizzati, nel terzo ci si addossa il peso di una millenaria tradizione di rapporto uomo natura, mediato dall’intervento salvifico delle divinità protettrici. A pensarci bene non e affatto un gioco, ma e piuttosto il gioco della vita. Allora forse e un gioco, dipende da quanto ci si prende su seno.
Rodolfo Invernizzi ha preso spunto -nient’affatto a caso, ma per un consapevole bisogno di ricollocazione storico geografica- dalle antiche consuetudini di portare in processione le reliquie dei santi in caso di siccità. E la passata estate si e ben prestata a questo.
Ha costruito una complessa macchina di legno all’esterno di una chiesina (ora sconsacrata) tracciando la strada processionale di accesso, collocando una sorta di altare di fondo, le urne da cu trarre due ipotetiche reliquie, contrassegnate ciascuna da una ”H” che allude all’antico ”simbolo cristologico bernardiniano. Ad un certo punto, con l’aiuto di due tiranti di corda, ha fatto venir fuori le due ”H” dalle finestrelle dell’edificio, esponendole in alto sul fronte della chiesa e le ha riunite in un cerchio propiziatorio – una ”0” – ottenendo i frutti sperati: ”H20” -il titolo di questa macchinazione -cioè un acquazzone che, nel giro di poche ore, ha inzuppato la valle. I1 tutto è stato fatto in letizia e solitudine, col solo aiuto di un carpentiere vicino di casa, incuriosito dall’impegno lavorativo dell’opera ed evidentemente attirato dalla serietà del gioco. Forse anche lui risucchiato in una gestualità sedimentata nella memoria, e in una sacralità che si perde nella famosa notte dei tempi e di cui probabilmente sentiva un inconscio bisogno.
Ma Invernizzi, che e un impunito, non è alla prima esperienza di questa fatta.
Sempre nel tentativo di rimettere dei paletti alla propria umanità, alla deriva ormai da qualche generazione, come i più sensibili hanno modo di verificare quotidianamente, ha voluto aprire lo scorso giugno una ”Porta solstiziale”, cioè un simbolico passaggio iniziatico verso l’individualita umana. Doveva scaturirne un ”battesimo” esistenziale celebrato nel giorno del battezzatore per antonomasia, Giovanni Battista (il 24 giugno), contiguo cronologicamente -e non per caso ma per preciso intento di ”cristianizzazione” di arcaiche consuetudini antropologiche al giorno del massimo splendore astronomico del sole, il solstizio estivo (il 21 giugno). Da quel giorno in poi l’estate comincia, ma il sole riduce progressivamente la sua presenza sulla terra, cosi come Giovanni Battista ”diminuisce” nel momento in cui Cristo appare e ”cresce”. Per questo fin dal Medio Evo il Battista e ricordato come ”Giovanni che piange”, mentre il suo omonimo omologo opposto e simmetrico. – Giovanni Evangelista, colui che cita la frase del Battista ”Egli deve crescere e io invece diminuire” – e “Giovanni che ride”, nel pieno dell’inverno (e ricordato il 27 dicembre) ma con la prospettiva di una crescita di insolazione astronomica e metaforica.
Tutto si è consumato in uno dei matronei della Basilica di Santa Maria Maggiore.
Invernizzi, novello Quasimodo, ha trasportato materiali e oggetti all’ombra delle architetture medievali, li ha innalzati contro una grande trifora murata, e ne ha fatto una ”porta di Borea”, come la definisce Omero nell’”Odissea”, figurando l’antro di Itaca in cui si aprono le due porte, questa che è per ”la discesa degli uomini”, mentre ”l’altra che si volge a Noto è per gli dei e non la varcano gli uomini, ma è il cammino degli immortali”.
Nessuno ha potuto condividere questo ”attraversamento” di confine, questo ”bagno” nella universalità del tempo e dello spazio, questo far combaciare la sua vita con quella di tutti gli uomini che lo hanno preceduto: Invernizzi era solo. Perchè solitario è il suo cammino di autoidentificazione. Perchè anche se tutti ne abbiamo uno, ciascuno lo percorre da se e per sé.
Quando il tempo si è compiuto, e il limite astronomico è stato valicato, la macchinazione si è dissolta. Ne restano solo delle fotografie, come per un mandala soffiato via da un sospiro.
Ma in fondo era solo un gioco: nel tempo che ci è toccato in sorte di vivere non possiamo permetterci che la simulazione di una ritualità antica e rassicurante, nella speranza assurda che per una misteriosa trasformazione alchemica essa torni ad avvolgerci nel suo manto protettivo. Le ”opere” di esiodea memoria che quotidianamente mettiamo in atto per vivere, non sono per noi ”giorni” aggiunti alla storia, ma solo giochi semiseri accumulati in una vita che non ha ancora trovato un senso.
Tranne quello della fine di tutto: quello si, e molto chiaro nella sua inesorabilità. Ed e l’unico che si avverte nettamente dietro la chiave apparentemente giocosa degli interventi di Invernizzi. Il quale sembra coniugare emotivamente la leggerezza del vivere nel terzo millennio – pesante fardello della modernità – con quell’incombenza della morte nella quotidianità che la Controriforma ha seminato – e fatto germinare – a piene mani a queste latitudini. Osservando i dettagli della ”Porta solstiziale”, si ritrovano piccole nature ”morte”, cioè ordinati accatastamenti di oggetti polverosi e antiquati, inutili alambicchi e inutilizzabili stoviglie, teschi e conchiglie, barattoli pieni di non si sa che, documenti e strumenti geografici, un improbabile mondo della memoria che sembra uscito da un quadro del Seicento o dai ricordi sbilenchi di qualche vecchio erudito. Una natura, appunto, ormai morta. Con cui Invernizzi instaura un rapporto che e insieme personale e diretto coinvolgimento fisico – gestuale dell’artista – ideatore nella ”performance”, e svagata teatralità del gioco. Due ”sistemi” che hanno in comune soprattutto il criterio della provvisorietà, autentico filo conduttore esistenziale di queste ”opere”.
D’altra parte è pur vero che i giochi sono molto spesso esercizi di sopravvivenza. Da ”mosca cieca” a ”nascondino”, dalle ”mamme” a ”rubamazzetto”, traducono sempre l’istanza pedagogica dell’affermazione di sè nel riconoscimento dell’altro come diverso da sè. Sono, in fondo, una metafora della vita stessa: esisti per capire chi sei, ti distingui da ciò che ti circonda, ti definisci progressivamente dandoti uno spazio e un tempo.
Che prima a poi finiscono. Come ogni bel gioco che, come dice il proverbio, dura poco. Forse ti diverti anche, ma non necessariamente. In ogni caso, ci sei stato anche tu e, contrariamente a molti altri che non ne hanno avuto cognizione, hai conquistato la tua consapevolezza. o, almeno, ci hai provato.

Antonia Abbattista Finocchiaro