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Il De vulgari eloquentia fu composto da Dante fra il 1302 e il 1305 e rimase incompiuto in quanto fu interrotto a metà del capitolo 14° del secondo libro dei quattro probabilmente previsti.

Si tratta di uno scritto importante per scoprire come il Dante della maturità, ormai prossimo alla stesura della Commedia, consideri la lingua e la poesia in volgare. Il poeta conduce un’ampia riflessione sul linguaggio visto come caratteristica peculiare dell’uomo rispetto agli altri animali e ne ripercorre le tappe dall’origine dell’umanità, quindi da Adamo, alla dispersione linguistica conseguente alla la torre di Babele.

Dante propone un’incisiva analisi degli stili tragico, comico, elegiaco e della lingua volgare che può avere un registro illustre, mediocre o umile a seconda delle circostanze; confronta le lingue d’oc, d’oïl e di , con un latino dotato di stabilità, funzionalità e consapevole struttura interna, per affrontare poi il tema della mutabilità delle lingue parlate con dialetti diversi da una regione all’altra, fino a tracciare una carta linguistica dell’Italia. Il grande divario fra lingue parlate e lingua italiana (volgare illustre) dimostra come il volgare illustre (o volgare italiano) dimori nelle élite e sia appannaggio solo dei grandi poeti. L’autore traccia anche un ampio quadro della lirica duecentesca, dai siciliani allo Stilnovo, descrive le forme poetiche – la canzone, la ballata e il sonetto – e tratta questioni di metro, versificazione, lessico. Considerando l’opera di molti letterati del suo tempo, sia italici sia d’oltralpe, esprime giudizi talvolta impietosi e taglienti.

La Biblioteca Angelo Mai conserva un esemplare della prima edizione a stampa dell’opera (segnatura: Cinq. 5.886). Ignorata e negletta per due secoli, comparve a Vicenza nel gennaio del 1529 per i tipi del tipografo bresciano Tolomeo Gianicolo, significativamente in una traduzione in italiano ad opera di Giovan Giorgio Trissino (Vicenza 1478 – Roma 1550). Grande umanista, convinto che il latino di Dante fosse illeggibile per i propri contemporanei, decise di allestire e pubblicare un volgarizzamento preceduto da una lettera dedicatoria al cardinale Ippolito de’ Medici, scritta da lui ma firmata da un suo giovane amico, Giovan Battista Doria, forse figlio di quell’Arrigo Doria che compare in altra opera di Trissino, Il Castellano.

L’attività di Trissino si colloca all’interno del dibattito sulla lingua, che vide una grande ripresa nei primi decenni del Cinquecento, con vivaci discussioni sul primato o meno del fiorentino nella costruzione dell’italiano moderno, sull’adozione del modello petrarchesco, sulla varietà di apporti terminologici in uso nelle corti, sull’ammissione di termini arcaizzanti o anche popolareschi; tra gli intellettuali coinvolti, oltre al vicentino (che espone le proprie idee soprattutto nel dialogo Il Castellano del 1529) si ricordano almeno Pietro Bembo con il suo Prose della volgar lingua, pubblicato nel 1525, e Baldassarre Castiglione con Il cortegiano, del 1528.

Il De vulgari eloquentia, nella traduzione del 1529, ha la sua fonte in un manoscritto trecentesco conservato presso la Biblioteca Trivulziana di Milano (il codice Trivulziano 1088) riconosciuto a tutt’oggi, insieme a quelli conservati alla Bibliothèque municipale di Grenoble e alla Staatsbibliothek di Berlino, uno dei tre manoscritti con valore filologico, tutti risalenti alla metà o seconda metà del XIV secolo.

Pregevole il frontespizio che contiene una marca tipografica raffigurante un vello d’oro su un albero custodito da un serpente e le iniziali del tipografo Tolomeo Gianicolo ai lati dell’albero. Nella cornice è presente un motto in greco, in caratteri maiuscoli, ricavato dall’Edipo re di Sofocle: PAN TO ZETOUMENON ALOTON (chi cerca trova).

Il frontespizio è completato da una citazione tratta dalla Vita di Dante scritta da Giovanni Boccaccio: «Appresso gia vicino a la sua morte compose un libretto in prosa latina, il quale si intitulò. De vulgari eloquentia; E come che per lo detto libretto apparisca lui havere in animo di distinguerlo, e di terminarlo in quattro libri, o che piu non ne facesse da la morte soprapreso, o che perduti siano li altri, piu non ne appariscono, che i dui primi». L’edizione è caratterizzata da alcune particolarità ortografiche come l’uso arcaizzante dei caratteri greci omega (ω) al posto della “o” , epsilon (ε) al posto della “e”, per distinguere le vocali aperte; del nesso “ki” al posto di “chi”. Molto curata la mise en page in unica colonna con ampi margini.

L’esemplare è rilegato in coperta in carta pressata rivestita da pergamena insieme con altre tre opere di Trissino sullo stesso argomento: Il Castellano, sopra citato, La poetica, l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana. Al verso del primo foglio di guardia troviamo un’antica nota di possesso della Libreria dei Cappuccini di Bergamo.

La Biblioteca possiede anche una seconda cinquecentina contenente la traduzione De vulgari eloquentia del Trissino, proposta insieme con Il Castellano in una pubblicazione ferrarese di Domenico Mamarelli del 1583 in formato tascabile (segnatura: Cinq. 1.1984). Al frontespizio si legge «Di nuovo ristampato, & dalle lettere al nostro idioma strane purgato, & ricorretto»: scompaiono le particolarità ortografiche presenti nell’edizione del 1529. L’esemplare posseduto, in un’economica legatura in cartone, proviene dalla biblioteca del Liceo di Bergamo, come si può vedere dal timbro sul frontespizio. La biblioteca del Liceo, ricca di migliaia di volumi a stampa, fu acquisita dalla Civica con decreto governativo del 1825.

Entrambe le edizioni sono disponibili in formato digitale: sfoglia l’edizione del 1529 riprodotta dalla Bayerische Staatsbibliothek e quella del 1583 dalla Österreichische Nationalbibliothek.