Bergamo: Piazza Vecchia 15
Atrio della Biblioteca: 18 dicembre 2004 – 22 gennaio 2005
Inaugurazione 18 dicembre 2004 ore 17.00
Ente promotore: Biblioteca Civica Angelo Mai
Curatori della mostra: Francesco Lo Monaco – Andrea Zonca
Progetto grafico: Desireé Vismara – Stefania Magaldi
Con il patrocinio della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Bergamo
Si ringraziano Archivio della Curia Vescovile di Bergamo, Civico Museo Archeologico di Bergamo, Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia
Ego Taido gasindius domno regi.
Un aristocratico al tramonto del regno longobardo
Nel giugno del 774, con l’assedio e la presa di Verona e di Pavia, e quindi la cattura di re Desiderio, Carlo, re dei Franchi, poneva termine alle vicende del regnum Langobardorum in Italia, a poco più di duecento anni da quando, nel 568, i primi nuclei di una popolazione germanica allora stanziata in Pannonia avevano varcato i confini dell’Italia nord-orientale, sotto la guida di re Alboino.
Nel corso di questi duecento anni i Longobardi si erano profondamente trasformati, passando dal duro e affascinante quadro delineato nell’anonima Origo gentis Langobardorum all’affabulatorio tessuto narrativo dell’affresco costruito da Paolo Diacono nell’Historia Langobardorum.
Da popolazione pagana, e poi ariana, si era trasformata in gens catholica, soprattutto sotto la spinta del re Liutprando, fenomeno che condusse alla nascita di un complesso, talvolta problematico, e comunque dialettico rapporto con le istituzioni ecclesiastiche dei territori del regnum.
Anche le strutture sociali avevano avuto delle trasformazioni profonde: da popolo nomade, dedito sostanzialmente all’allevamento, per il quale i segni distintivi del potere erano legati a ciò che poteva essere portato e mostrato, i Longobardi divennero progressivamente popolo stanziale caratterizzato, nelle fasce alte della società, da possidenti terrieri (e ciò probabilmente per interferenza anche con l’elemento romano) e la proprietà di terre sarebbe di conseguenza divenuto l’indicatore della condizione sociale dell’individuo.
Se nella fase pannonica e nella prima fase italiana potevano essere fibule, anelli, ornamenti per la bardatura dei cavalli e comunque oggetti preziosi a indicare il rango di un individuo, anche dopo la morte, quand’essi avrebbero costituito, nell’arredo funerario di una tomba, il tratto memoriale della posizione sociale della persona, a partire dall’VIII secolo sarà il patrimonio in beni mobili e immobili, e il loro elenco, a dover essere legato sia alla definizione del rango sia alla memoria post obitum, nonché, ovviamente, alla prassi della successione.
Proprio nel contesto di questa aristocrazia terriera, che tende sempre di più a regolare per iscritto, con documenti simili a testamenti, le vicende della gestione e della trasmissione dei patrimoni, si inserisce la charta ordinationis et dispositionis del gasindio Taido, redatta pochi mesi prima della caduta di Pavia.
Questa mostra intende proporre un esame approfondito dei contenuti di questo documento, e insieme offrire una breve panoramica su testimonianze materiali della presenza longobarda in territorio bergamasco.
PANNELLI DELLA MOSTRA
Pannello 1: Taido gasindius domni regi
Casindios regis: id est qui palacio regis custodiunt(“Gasindi del re: coloro che sono a guardia del palazzo reale”). Così viene glossato nel codex Cavensis(Cava dei Tirreni, Biblioteca dell’Abazia, ms. 4, del secolo XI) l’articolo 62 delle legesdi Liutprando, nel quale si parla del peso finanziario dei gasindi, e nella glossa viene sintetizzata l’idea di fedeltà che regolava i rapporti tra il re e il gruppo di notabili a lui più vicini – spesso anche in senso geografico – dotati spesso di un sostanzioso patrimonio costituito da ampi possedimenti terrieri.
I gasindi erano dunque, a rispetto dell’essere dei ‘compagni di viaggio’ (tale il significato del termine germanico *gasinÞjaz), gli uomini di fiducia del re, legati al sovrano da un vincolo formale: tant’è che nell’evoluzione storica di tale figura vennero resi a tal punto autonomi da ogni altro potere (soprattutto per volere di re Ratchis, con l’articolo 14 delle sue leges) da non poter nemmeno essere sottoposti all’azione diretta degli iudices.
Del profilo biografico e delle relazioni parentali di Taido, che portava un nome raro, per quello che conosciamo della tradizione onomastica longobarda superstite (sembra trattarsi di un ipocoristico legato all’elemento *Þaid-, da associare o a *Þeudo‘popolo’ o a *taita– ‘felice’), è possibile ricostruire abbastanza poco. Attraverso la carta dispositionissi viene a sapere che il padre si chiamava Teuderolf (nome di formazione complessa e dubbia, anch’esso alquanto raro nella documentazione longobarda, con una sola altra attestazione, sempre in ambito bergamasco) e che è definito civis Bergome, appellativo comunque, a quanto pare, non obbligatoriamente connesso all’effettiva residenza di chi lo portava all’interno dell’area cittadina, come sembrerebbero indicare formule analoghe in altri documenti longobardi di aree diverse. Taido aveva inoltre due fratelli: Rodoald, dei cui beni poteva in parte disporre Taido stesso, e quindi Teudoald, che Taido designa quale destinatario, tra altro, di quella parte di beni che si trovavano nel territorio veronese, cosa che lascerebbe supporre una residenza di Teudoald in quell’area geografica e quindi una ramificazione della famiglia anche al di fuori dei confini del territorio bergamasco.
Taido era sposato con Lamperga (pure in questo caso un antroponimo alquanto raro, se non unico nella documentazione longobarda superstite), ma non pare avesse discendenza all’epoca della stesura della carta dispositionis, particolare questo che, se non legato ad altri fattori, potrebbe lasciar congetturare che Taido fosse ancora abbastanza giovane, forse legato da poco in matrimonio, e che l’esigenza di far redigere la carta dispositionissia nata in lui dalla fondata sensazione della vicina fine del regnum(Verona e Pavia sarebbero cadute nel giugno del 774), come peraltro parrebbe emergere da alcune parole iniziali della parte dispositiva del documento: Ideoque ego cui supra Taido, qui pensans varietatem insurgentium calamitatum et vite humane defluentes casu … per presente paginam ordinationis mee previdi distribuere rebus meis(“Pertanto io Taido, di cui sopra, riflettendo sulla varietà delle sventure che continuano a crescere di giorno in giorno e sulla labilità della vita umana … con il presente documento ho previsto di distribuire i miei averi”).
Pannello 2: Donazioni in alta Italia
Un segno del particolare rango sociale di Taido è la notevole consistenza di terre che possedeva, e soprattutto il fatto che questo non fosse concentrato nel solo territorio di Bergamo, ma disperso anche nel territorio di altre città. Rimandando al pannello successivo l’esame dei beni in ambito bergamasco, prendiamo qui in considerazione i beni esterni a questo.
Nel territorio cremonese, facente parte allora del ducato di Bergamo, Taido possedeva una corte in Voltìdo, che probabilmente rimase nelle mani della famiglia; venne solo disposta la donazione di un podere da essa dipendente alla chiesa di S. Grata in Bergamo, e di 5 iugeri (=circa 40.000 mq) di terra alla chiesa di S. Michele nello stesso luogo di Voltìdo.
Nella iudiciaria Sermionensepossedeva, in indivisa con il fratello Teudoald, due corti, situate nelle località di Cociolinae Buccaria, non identificate; la quota di propria spettanza di tali beni Taido la lasciò allo stesso fratello, così da ricomporne il possesso. La iudiciariaera un distretto con particolari funzioni militari indipendente dai vicini ducati, che abbracciava entrambe le sponde del lago di Garda e aveva centro a Sirmione; analoghi distretti erano stati creati anche presso i laghi occidentali in Lombardia.
Sempre al fratello Teudoald egli lasciò la propria quota di un altro bene indiviso, una casa domocultasita nel territorio di Verona, in località Pontienengo, non identificata.
Nel territorio di Verona si trovava anche un’altra casa domocultache Taido possedeva in indiviso col fratello, quella in località Roboreta(forse Roveredo di Guà): in questo caso, la quota di sua spettanza la donò ad una chiesa nei pressi della stessa città di Verona (forse S. Zeno).
Infine, alla chiesa di S. Michele Arcangelo di Pavia (capitale del Regno Longobardo) Taido lasciò delle terre situate nella località Gravanate, lungo il corso del Po, forse in una zona ancora largamente incolta e poco popolata.
Pannello 3: Donazioni nel territorio bergamasco
Dei beni posseduti da Taido nel ducato di Bergamo abbiamo una migliore descrizione, poichè essi furono oggetto di donazioni a diverse chiese della città e del territorio, affinchè in ciascuna di esse si celebrassero messe e venissero accese lampade in memoria del donatore. Nella maggior parte dei casi si tratta di beni indivisi, ed è quindi specificato se viene donata solo la quota di spettanza di Taido o anche la quota del fratello Rodoald.
Questi dunque i beni lasciati a ciascuna chiesa:
Cattedrale di Bergamo: corte di Bonnate(Bonate Sotto) con relative pertinenze, sia la quota di spettanza di Taido che quella di Rodoald.
- Giuliano in Bonate Sotto: alcune pertinenze della stessa corte, cioè due poderi e le parti deldomocoltosite in Rodi (località in territorio di Filago); anche di queste è disposta la donazione sia della quota propria che di quella di Rodoald.
- Grata in Bergamo: le quote di spettanza di Taido di un podere in Casco (comune di Cenate Sopra) e di uno in Voltìdo (CR), oltre ad una silva Brexianadi non chiara ubicazione.
- Ambrogio in Zanica: la quota di spettanza di Taido di un podere in Curnasco (comune di Treviolo).
- Maria in Casirate: un podere in località Villa, presso Arzago d’Adda.
- Lorenzo in Arzago: un podere retto da due massari, di cui non è indicata l’ubicazione (probabilmente la stessa del precedente).
- Pietro in Bergias(= Cassano d’Adda, MI): la quota di spettanza di Taido della casa domocultasita in Bergias et Blacanugo, località corrispondenti ad una parte dei comuni di Cassano d’Adda e Fara Gera d’Adda, lungo il corso stesso dell’Adda.
- Vittore in Terno d’Isola: la quota di spettanza di Taido di un podere a Mapello.
- Michele presso Bergamo(S. Michele al Pozzo Bianco): campi, prati e boschi in Vabris, località identificabile con Casaletto Vaprio (CR).
Infine, al Vescovado di Bergamovenne lasciata la corte in Berzo S. Fermo «con tutte le pertinenze esistenti lungo la Val Camonica, a partire da Cavellas», località scomparsa situata, grosso modo, presso Mologno (comune di Casazza): quest’espressione indica come, a quell’epoca, l’attuale Val Cavallina fosse considerata una parte della Val Camonica; a proposito di questi beni Taido dispone che il vescovo dovrà venderli e distribuirne il ricavato tra sacerdoti e poveri.
Pannello 4: L’organizzazione fondiaria
La struttura classica della grande proprietà terriera nell’Altomedioevo è la corte (curtis), articolata in due parti, relativamente autonome tra loro: il dominicoe il massaricio. Il primo (casa domoculta) è il nucleo centrale dell’azienda, gestito direttamente dal proprietario mediante il lavoro di servi, che ricevono solo lo stretto necessario per vivere. Il massaricio è formato da poderi (casae) dati in affitto, generalmente a titolo ereditario, per canoni comprendenti quote-parti dei prodotti (grano, vino, bestiame, polli e uova), somme di denaro e prestazioni d’opera da compiersi sul dominico. In età longobarda le prestazioni d’opera hanno ancora un peso molto limitato, e le due parti della corte non sono ancora pienamente integrate in un’unica struttura produttiva, sicchè spesso domocolto e singoli poderi possono essere alienati separatamente. Tale integrazione, grazie all’aumento delle prestazioni d’opera a carico degli affittuari, si avrà solo in seguito, in età carolingia.
Anche i beni di Taido, sia quelli del Bergamasco che quelli di altri territori, erano organizzati in corti. In ambito bergamasco sono identificabili tre corti.
La corte di Bonnate(Bonate Sotto), a cui erano collegati beni in Rodi e probabilmente in Mapello e Curnasco, e in cui si trovava la cappella di S. Giuliano. Il documento contiene una dettagliata formula che ne descrive le pertinenze: «corte con tutte le case e gli edifici, con case di abitazione di massari e di aldioni, gli orti, le aie, i recinti, i campi, i prati, le vigne, le foreste, i castagneti, i cerreti, i rovereti, i boschi cedui, i pascoli, i diritti d’uso delle acque, le sterpaglie, i saliceti, le ripe e gli accessi, tutti i beni mobili e il bestiame». Questa formula ci dà un’idea della complessità e della vastità di questi patrimoni fondiari, composti in larga parte da superfici incolte.
La corte di Bergias, che estendeva il suo domocolto nei territori di Bergiase Blacanugo(tra Cassano d’Adda e Fara Gera d’Adda), a cui erano probabilmente legati i poderi di Arzago e di Villa e altre terre a Casaletto Vaprio (CR); essa inoltre comprendeva la cappella di S. Pietro in Bergias.
La corte di Berzo(Berzo S. Fermo), che aveva pertinenze in Val Cavallina (allora considerata parte della Val Camonica) e da cui dipendeva forse anche il podere in Casco (Cenate Sopra).
Lo stato giuridico dei conduttori dei poderi non è esplicitato, è si parla semplicemente di massarii. Solo nella formula di pertinenza sopra riportata e in altri passi analoghi si fa riferimento agli aldioni, una categoria peculiare della società longobarda: sono “semiliberi”, capaci di possedere beni propri ma tenuti a vivere sotto il patronato di un uomo libero. All’epoca di Taido, tuttavia, questa categoria era ormai praticamente scomparsa, e la sua menzione è da ritenersi un retaggio nelle formule notarili.
Un indizio dello stato sociale dei contadini che avevano in affitto i poderi possono ritenersi i nomi: su 10 massariiattestati, 5 hanno nomi latini, e 5 hanno nomi germanici. Se i primi possono essere considerati discendenti del ceto contadino autoctono, gli altri potrebbero essere di stirpe longobarda: uomini liberi decaduti, non più dotati di un proprio patrimonio; a quest’epoca, tuttavia, l’uso di nomi germanici si era già diffuso anche tra la popolazione di stirpe italica.
Pannello 5: Aspetti della devozione religiosa
All’arrivo il Italia nel VI secolo la religione ufficiale dei Longobardi era l’arianesimo, un’eresia cristiana diffusa in ambito orientale a partire dal IV secolo, ma la maggioranza della popolazione era, di fatto, ancora pagana. Una piena conversione al cattolicesimo si ebbe solo a partire dall’VIII secolo, in particolare sotto il regno di Liutprando (712-744).
Anche nel testamento di Taido vi è un riferimento a questa nuova confessione religiosa, quando, a proposito della manumissio(liberazione) dei servi, ci si richiama alle norme emanate «dai prìncipi di questo popolo cattolico dei Longobardi».
La varietà delle chiese beneficate dai lasciti di Taido offre invece una sintesi delle devozioni stratificatesi nella Bergamo longobarda.
In primo luogo è menzionata la cattedrale di S. Alessandro (con la chiesa dipendente di S. Pietro) unita alla cattedrale di S. Vincenzo (con la chiesa dipendente di S. Maria). La presenza di questa doppia sede della Cattedrale è tradizionalmente spiegata come un retaggio del periodo più antico, quando –secondo quanto narra Paolo Diacono- in ogni città era presente un vescovo ariano ed uno cattolico: S. Vincenzo fu probabilmente la cattedrale ariana, fondata dai Longobardi all’interno della città, in contrapposizione a S. Alessandro, cattedrale cattolica, intitolata al martire patrono cittadino, sita fuori dalle mura urbane. Dopo la conversione al cattolicesimo, S. Alessandro rimase la principale sede della Chiesa di Bergamo, ed è presso l’altare di questa chiesa che, secondo le disposizioni di Taido, il vescovo dovrà procedere alla manumissiodei servi.
La chiesa di S. Grata (situata nell’attuale Borgo Canale) è intitolata ad una figura che la tradizione mette in rapporto con il martirio di sant’Alessandro, avvenuto nel sec. 298 d.C. durante l’impero di Massimiano, ma la dice figlia di Adleida e di Lupo, duca di Bergamo rappresentante dell’imperatore. Tuttavia, il nome germanico della madre e soprattutto il titolo di ducaattribuito a Lupo, indica chiaramente che la formazione di questo culto avvenne in età longobarda, in particolare entro la metà del VII secolo, quando al governo di Bergamo il duca fu sostituito dal gastaldo di nomina regia. La leggenda opera quindi una identificazione tra ariani e pagani, mentre Grata è il simbolo della componente cattolica della città.
Allo stesso modo S. Ambrogio fu un santo a cui si rivolse la popolazione cattolica all’epoca dell’arrivo in Italia dei Longobardi, visti come dei nuovi pagani; a lui era dedicata una chiesa presso Zanica, non lontano dal luogo ove effettivamente si stabilì un nucleo longobardo, documentato dai resti archeologici, tra cui crocette auree.
Un culto specifico della tradizione longobarda è quello per S. Michele Arcangelo, a cui sono intitolate sia una delle chiese cittadine (S. Michele al Pozzo Bianco), sia una chiesa di Pavia, sia la cappella di Voltido (CR), tutte benificate di lasciti.
Lasciti furono disposti anche a favore di due chiese rilevanti, più che per un culto specifico, per il loro rango istituzionale, cioè le chiese capo-pieve delle zone dove si concentravano i possessi bergamaschi di Taido: S. Vittore di Terno, centro della pieve dell’Isola Brembana, ove si trovavano i beni della corte di Bonate; e S. Lorenzo di Arzago, centro della pieve della Gera d’Adda (in diocesi di Cremona), ove si trovavano i beni della corte di Bergias.
Da notare infine la presenza di chiese presso le corti: S. Giuliano a Bonate, S. Pietro a Bergiase S. Michele a Voltìdo: si tratta probabilmente di cappelle private, interne alla proprietà, e l’atto di conferire ad esse dei beni sarebbe allora volto a mantenere il controllo di questi nell’ambito della famiglia.
Pannello 6: Le Leges Langobardorume le chartae
La promulgazione nel 643 da parte del re Rotari di un Edictumche raccoglieva la tradizione legislativa del proprio popolo fu un evento epocale nell’evoluzione politica e sociale dei Longobardi, i quali, sebbene quasi per ultimi tra i popoli germanici, e tuttavia con un tasso di originalità considerevole, organizzarono le proprie leggi dietro il chiaro influsso della tradizione romano-bizantina (la quale in parte dovette anche ridefinire alcuni aspetti dell’originario diritto germanico dei Longobardi).
La creazione del corpussi associò da subito all’idea dell’esistenza di un codex, di un libro manoscritto, che radicò la propria autorevolezza nell’essere realizzato sotto controllo diretto del sovrano a opera di un notarius, cui spettava il compito di certificare la correttezza del testo archetipo, come è apertamente sancito da Rotari nell’articolo 388 (che è anche l’ultimo delle sue leges) e ribadito nella tradizione iconografica – a dir il vero posteriore – che ritrae quel primo sovrano legislatore.
La scrittura entrava così, accanto alla più tradizionale oralità, a gestire i negozi che dovevano regolare la vita sociale nel regnum Langobardorum: con un grado di autorevolezza tuttavia della parola scritta di sicuro non superiore a quello della parola pronunciata. Nell’Edictumdi Rotari infatti l’esistenza o meno di una cartaper valutare la validità di un atto era sostanzialmente indifferente, come parrebbe indicare l’articolo 224. Per quanto Rotari si periti di fissare una pena (il taglio della mano) per gli autori di documenti falsi (art. 243).
Se la legislazione di Rotari – alla metà dunque del VII secolo – prestava sì attenzione al tema della redazione di documenti scritti, ma faceva riferimento a un impiego di essi nella prassi in maniera sostanzialmente marginale, la situazione cambiò radicalmente a partire dall’VIII secolo, particolarmente con il re Liutprando (712-744), nelle cui legesil riferimento a documenti che dovevano regolare negozi della vita sociale è molto più frequente. A riprova di questa maggiore diffusione della redazione di documenti scritti a partire dal primo ventennio del secolo VIII è la preservazione fino ai giorni nostri di alcune centinaia di pergamene con documenti privati longobardi, delle quali le più antiche datano sostanzialmente al regno di Liutprando.
Le legescon Liutprando dunque sembrano prendere atto di un fenomeno sempre più diffuso e radicato nella società, quale il fissare per iscritto i termini di un negozio, per quanto paia rimanere ancora centrale, pur a fronte di una fioritura indubbia di atti scritti, l’oralità e comunque venga avvertito come non assolutamente vincolante in totol’atto scritto.
Pannello 7: La cartadi Taido e le Leges Langobardorum
Se il sempre più frequente ricorso nella regolamentazione dei negozi privati alla stesura di documenti scritti si riflette, a partire dal secolo VIII, in una maggior attenzione da parte dei sovrani legislatori longobardi alle modalità e agli ambiti di redazione di cartolaeche dovevano certificare la validità di tali atti (esemplare in merito è l’articolo 91 delle legesdi Liutprando, nel quale il re prescrive di redigere le chartaeseguendo i dettami delle leggi longobarde oppure di quelle romane), non sono del tutto assenti dalla documentazione superstite attestazioni del processo inverso, vale a dire richiami espliciti all’Edictumall’interno di una charta. Si tratta, è pur vero, di un gruppo di rinvii sparuto (in tutto cinque attestazioni, comprese fra il 748 e il 774) eppure significativo per la circolarità di un rapporto, a un certo punto istituitosi, tra chartaeed Edictumnell’ottica della scrittura.
Liutprando aveva decretato che gli scrivaedovessero redigere per legemciò che ad hereditandum pertinet. E in effetti il tema delle successioni era già ampiamente presente nell’Edictumdi Rotari, che di ciò si occupa, tra altro, nella sezione compresa tra gli articoli 153 e 223, con le ulteriori precisazioni dei successivi sovrani legislatori, le quali andavano a fotografare la progressiva evoluzione della società longobarda.
In tale contesto legislativo, Taido fece redigere, quale atto che doveva contenere le proprie disposizioni post obitum, una carta dispositionis et ordinationis, vale a dire uno di quei tipi di documento che nell’Italia longobarda andarono a sostituire il testamento vero e proprio previsto dalla legislazione romana nella regolamentazione dei diritti e delle modalità della successione. All’interno della carta, nel punto dedicato alla questione della manumissiodi tutta la servitù, una volta che fossero morti sia Taido stesso sia la moglie Lamperga (la quale, in caso di morte di Taido, avrebbe goduto dell’usufrutto dei beni del marito, a patto di non convolare a nuove nozze), viene fissato che la liberazione dovesse avvenire per manus pontifici sancte ecclesie Bergomensis(“per mano del vescovo della chiesa di Bergamo”) e che da quel giorno in poi servi … et ancillas, aldionis et aldianissarebbero dovuti rimanere liberi et absoluti, sicut a principibus huius gentis catholice Langubardorum in aedicti pagina est institutum(“liberi e sciolti da ogni vincolo, come viene stabilito nelle pagine dell’Edictumdai sovrani del nostro cattolico popolo longobardo”). La pagina aedictirichiamata è sicuramente quella di Liutprando che contiene disposizioni sulla prassi della manomissione (articolo 23, il quale fa parte del corpusdi leggi emanato nel nono anno di regno, vale a dire il 721), con l’integrazione comunque della paginadelle leggi di Aistolfo (749-756) che andavano ulteriormente a precisare le modalità di tale prassi, a fronte dell’aumentare di alcuni abusi (articoli 11 e 12, compresi nel corpusemanato nel quinto anno di regno, vale a dire il 755).
Pannello 8: Note paleografiche
La charta dispositionis et ordinationische, dietro richiesta di Taido, il notarius scriptor Petrusredasse, con perizia formale, qualche innalzamento retorico e la lingua della prassi documentaria dell’VIII secolo, ci è pervenuta in copia, come testimonia, tra altro, anche l’assoluta invarianza grafica dell’area deputata ad accogliere le sottoscrizioni, di cui erano invece autografe nell’originale quelle di cinque laici (Taido stesso, Alpert, Gaido, un altro Taido, Ratpert) e di un ecclesiastico (Andrea suddiacono della chiesa pavese), non autografe quelle di due laici (Radone e Potone).
Assunta quale copia coeva fino all’inizio del XX secolo, venne quindi, a opera di uno dei maggiori diplomatisti italiani, Luigi Schiaparelli, curatore del Codice diplomatico longobardo, ricondotta alla tipologia di copia semplice databile piuttosto al IX secolo (e più precisamente alla prima metà di esso). Datazione che è anche quella corrente.
La pergamena è vergata in una corsiva nuova italiana con spiccate tendenze cancelleresche (lo sviluppo verticale, l’utilizzo di lettere più grandi – e, ccrestata -, l’estensione verso l’alto delle aste a frusta, le cuspidi per ped r) da una mano che esibisce un’indubbia perizia e una certa eleganza nel tratto [immagine – facsimile (a) ].
La presenza di tratti cancellereschi nelle scritture documentarie italiane dell’VIII secolo è un fenomeno non inusuale, come già dimostra, ad esempio, la mano del grande rogatario lucchese Gaudentius, attivo come notarius sancte ecclesie Lucanetra il 737 e il 749-750 [immagine – facsimile (b) ]. Anzi proprio questi tratti cancellereschi sembrerebbero caratterizzare, in alcuni casi, la tradizione grafica all’interno di ambiti di produzione documentaria legata a grandi istituzioni ecclesiastiche cittadine.
Per quanto concerne Bergamo, tali tendenze grafiche sono riscontrabili ad esempio in una pergamena vergata dal suddiacono Iohannesnell’805, con, all’interno di essa, le sottoscrizioni del diacono Benignuse del chierico Senatorle quali mostrano analoga educazione grafica fatta sulla base di corsive nuove italiane declinate su modelli cancellereschi [immagine – facsimile (c) ]. Migliore testimonianza ancora – per una più forte contiguità con la tipologia grafica della cartadi Taido – è un documento vergato nell’816 dalla mano di Iohannespresbitero sanctae Bergomensis ecclesiae[immagine – facsimile (d)].
Se è vero che gli esempi addotti si situano entro il primo ventennio del IX secolo, ciò non implica comunque necessariamente che la copia della cartadi Taido sia stata effettuata in quel periodo. È invece pensabile che l’educazione grafica degli scrittori delle pergamene bergamasche si possa essere basata, all’interno della corsiva nuova italiana, su modelli inclini ad assumere tratti cancellereschi e ricercati già a partire dalla seconda metà VIII secolo. Piuttosto la contiguità nelle tipologie grafiche lascerebbe supporre che la copia possa essere stata realizzata nell’ambito degli scriptoresdella cattedrale di S. Alessandro, istituzione peraltro interessata alle disposizioni di Taido.
Didascalie delle vetrine
- Testamento di Taidone gasindio del reCharta ordinationis et dispositionis di Taido gasindio del re (Bergamo, maggio 774)
Pergamena di forma rettangolare. Cm. 40 × 67; 55 ll. in assenza di rigatura.
Note dorsali di varie epoche (secoli IX/X – XIX) a diversi gradi di leggibilità.
Segni di plicatura orizzontale e traccia di sigillo in ceralacca.Taido, gasindio del re, figlio del fu Teuderolfo di Bergamo, nel pieno delle sue facoltà dispone che, dopo la propria morte, pro missa et luminaria, nonché pro anime remedium, i beni siti nel territorio di Bergamo (per alcuni di essi, specificamente quelli legati alla curtis di Bonate, egli ha facoltà di disporre anche per la parte del fratello Rodoald), nel territorio di Verona, in quello di Pavia e in altre zone vengano lasciati alle chiese di S. Alessandro, S. Pietro, S. Maria, S. Vincenzo, S. Grata, S. Michele Arcangelo di Bergamo e ad altre fondazioni ecclesiastiche del territorio, a una chiesa del veronese e alla basilica di S. Michele Arcangelo a Pavia.
Destinatario di parte dei beni dovrà essere anche il fratello Teudoald: in caso di rifiuto da parte di questo, o dei suoi eredi, i beni saranno distribuiti tra le chiese di S. Alessandro, S. Pietro, S. Maria e S. Vincenzo di Bergamo.
La moglie Lamperga avrà l’usufrutto di tutti i beni del marito, a patto che non contragga nuove nozze. Costei inoltre avrà facoltà, pro anime remedium, sia proprio sia del marito, di distribuire ogni venerdì pane, vino et companatico a dieci poveri, traendo dalla sostanza delle donazioni fatte da Taido alle chiese citate.
Taido dispone inoltre che dopo la propria morte, e quella della moglie, i servi vengano manomessi secondo l’uso disposto dalle leggi del popolo longobardo.
Infine i beni lasciati ingiudicati, nonché quelli dislocati nella Val Cavallina, dovranno essere amministrati dal vescovo di Bergamo, che avrà cura di venderli e di distribuire il ricavato tra i sacerdoti e i poveri.
Taido si riserva comunque la potestà di poter mutare in qualsiasi momento, finché sarà in vita, qualsiasi delle disposizioni elencate nella carta.
Bergamo, Civica Biblioteca “Angelo Mai”, Fondo Pergamene 3153
- Zanica, loc. Martino Corto (ritrovamento 1846)Tre croci in lamina d’oro decorata a stampo, databili tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo, rinvenute in un’unica tomba insieme ad altri oggetti di corredo. Resta incerto se si trattasse della tomba di un solo individuo o di più individui.
Le croci in lamina d’oro sono un oggetto caratteristico delle sepolture longobarde fino al VII secolo avanzato, sia maschili sia femminili; erano cucite sul sudario che copriva il defunto, ma non sono di per sé prova di confessione cristiana, potendo essere usate anche come semplici elementi decorativi.
Oltre che da questi ritrovamenti, lo stanziamento di un nucleo longobardo nei pressi di Zanica e nei centri vicini è testimoniata da toponimi rilevabili nella documentazione scritta sin dall’XI secolo.
Bergamo, Civico Museo Archeologico, invv. 3081-3083
- Paolo Vimercati Sozzi, Spicilegio archeologico (1868)L’attività archeologica di Paolo Vimercati Sozzi (1801-1883) si concretizzò nella repertoriazione degli scavi e dei ritrovamenti archeologici, effettuati tra il 1834 e il 1869, in uno Spicilegio archeologico nella Provincia di Bergamo dall’anno 1835 al 1868, manoscritto, nel quale tutti i materiali rinvenuti (e confluiti nella collezione privata del Vimercati Sozzi stesso, poi donata alla città di Bergamo) vennero descritti nonché raffigurati in tavole.
Nella tavola VII sono riprodotti i ritrovamenti di Stezzano, Zanica, Urgnano e Loreto, tra cui le tre croci auree attualmente del Civico Museo Archeologico di Bergamo.
Bergamo, Civica Biblioteca “Angelo Mai”, Cassap. 1° G 4 22
- L’edizione della charta nel Codex diplomaticus di Mario LupoLa pagina ordinationis et dispositionis di Taido venne edita per la prima volta integralmente nel volume I del Codex diplomaticus civitatis et ecclesiae Bergomatis (Bergamo, Vincenzo Antoine, 1789, coll. 527-544) curato dal canonico Mario Lupo (1720-1789), il quale dotò l’edizione di note di commento, oltre a farla seguire da un’appendice De mense, quo Carolus Magnus Ticini potitus est (‘Discussione circa il mese in cui Carlo Magno conquistò Pavia’) e da Fragmenta historica di argomento longobardo (coll. 543-564).
L’edizione del testo è preceduta dalla didascalia Testamentum Tuidonis gasindii regis anni 774 ex interiore archivio episcopatus fasc. C la quale, oltre a mostrare l’errata grafia Tuido per Taido (dovuta alla confusione nella lettura della a aperta utilizzata nella scrittura del documento), forma che rimase in auge sino all’edizione di Luigi Schiaparelli (vedi qui nr. 6), rivela soprattutto che il documento apparteneva, nel XVIII secolo, all’Archivio Capitolare di Bergamo.
L’attuale presenza della charta di Taido all’interno del Fondo pergamene della Civica Biblioteca “Angelo Mai” è legato al passaggio della pergamena (in data e in occasione ancora da chiarire) nella collezione di manoscritti, pergamene, monete e medaglie organizzata dal sacerdote Luigi Femi, il quale a sua volta aveva ereditato carte e materiali di Giuseppe Ronchetti, continuatore e artefice del II volume del Codex diplomaticus del Lupo. Originariamente, per disposizione testamentaria del 1855 del Femi stesso, la collezione era stata lasciata in dono alla Civica Biblioteca di Bergamo, che poi, a seguito di un contenzioso con la sorella del donatore, dovette invece acquistarla nel 1857 per la somma di 175.000 Lire. Nell’inventario di stima, custodito nel manoscitto AB 208, ff. 98-111, della Civica Biblioteca “Angelo Mai”, tra i Manoscritti in pergamena il “Testamentum Tuidonis Gasindii regis anni 774” è censito al numero 88.
- Il facsimile nel Codice paleografico lombardo del BonelliRiedita (senza sostanziali innovazioni) nel Codex diplomaticus Langobardiae curato da Giulio Porro-Lambertenghi (Torino, Tipografia Regia, 1873, doc. 51 coll. 97-101), la charta venne quindi inserita nell’ambizioso, e tuttavia notevole, progetto di Giuseppe Bonelli volto a organizzare un Codice paleografico lombardo, in cui venivano offerti notevoli riproduzioni fotografiche di documenti con trascrizione diplomatica. La pubblicazione apparve per le cure tipografiche di Ulrico Hoepli a Milano.
La riproduzione della charta di Taido è inserita nel volume dedicato al secolo VIII (probabilmente anche l’unico), uscito nel 1908, come Tavola 15, nella cui didascalia il documento è presentato come copia ‘sincroma’ (sic, ovviamente per ‘sincrona’).
Nella copia del Codice paleografico posseduta dalla Civica Biblioteca di Begamo sono presenti, incollate nella controguardia anteriore, due pagine di osservazioni critiche sulla trascrizione offerta dal Bonelli redatte da Angelo Mazzi nell’agosto del 1908.
Bergamo, Civica Biblioteca “Angelo Mai”, Salone A 10 12
- L’edizione di Luigi Schiaparelli nel CDLSotto il numero 293 (vol. II pp. 429-437) il documento di Taido venne inserito da Luigi Schiaparelli nel suo monumentale Codice Diplomatico Longobardo (Roma, Tipografia del Senato, 1933 [Fonti per la storia d’Italia, 63]: il primo volume era apparso, sempre a Roma presso l’Istituto Storico per il Medioevo, nel 1929): pietra miliare non solo degli studi longobardi ma della diplomatistica in generale.
Dotata di accurate note critiche che delineano la tradizione manoscritta e a stampa del documento, ne riassumono la situazione degli studi, oltre a offrire importanti osservazioni di natura paleografica e diplomatistica, l’edizione dello Schiaparelli rappresentò un deciso (e pressocché definitivo) avanzamento nella correttezza della trascrizione: a partire, ad esempio, dal nome stesso di Taido.
- Bottanuco (?)Frammento di tegolone recante impresso il marchio di fabbrica SENOALD, relativo al nome del produttore; databile al sec. VIII.
L’apposizione di bolli di fabbrica su alcuni laterizi (probabilmente uno per ogni partita messa a cottura) è una pratica che risale all’epoca romana, quando l’uso in edilizia dei mattoni e dei tegoloni era molto più diffusa che nell’Alto Medioevo.
Si presentano qui, in parallelo, alcuni esempi di tali marchi di fabbrica risalenti a epoca romana e conservati nel Civico Museo Archeologico.
Bergamo, Civico Museo Archeologico, inv. 2402
- Cologno al Serio, località Morti dell’Arca (ritrovamento 1856)Il lastrone di materiale fittile, con incisione a mano libera a crudo, di Cologno al Serio oltre a costituire, con ogni probabilità, un’interessante (e rara) traccia dell’attività di una fornace, probabilmente locale e privata, della quale i nomi registrati (Anderado, Ursolos, Garibaldo, Domeneco, Gaidoaldos e Austermundo) potevano essere quelli di operai (con la rispettiva produzione) oppure di acquirenti (con le quantità di materiale comprato o prenotato), è notevole testimonianza del livello di alfabetismo grafico di figure legate a un’attività artigianale, per la quale un grado di conoscenza della scrittura, anche solamente di base, doveva essere patrimonio non inusuale.
Lo scrivente utilizza una corsiva di base semplice, con lettere tendenzialmente assai staccate, fatto su cui può aver influito la natura del supporto scrittorio, e che tuttavia trova puntuale riscontro nelle scritture elementari di base, più o meno evolute, di sottoscrittori di pergamene bergamasche tra VIII e IX secolo, termine cronologico questo cui potrebbe essere fatto risalire anche il lastrone esposto.
Bergamo, Civico Museo Archeologico, inv. s.n.
- Una charta dell’anno 773Questa cartola de accepto mundio (cfr. Schiaparelli, CDL, II, nr. 284, pp.410-412) venne redatta dal clericus notarius publicus Bergomates di nome Gaff, nel maggio del 773, a casa del chierico Ageperto e del fratello di questo, Gaifrit, abitanti in vico Castellis.
Gaff esibisce una corsiva italiana nuova accurata e sostanzialmente regolare, distintiva del suo ruolo di professionista della penna per la stesura di documenti, come indicherebbe anche l’appellativo esplicito di notarius publicus. Netta l’opposizione con le capacità grafiche del rogatore, Ageperto, che sottoscrive alle righe 17 e 18 facendo uso di una scrittura personale assai semplice e pressocché priva di legature.
Bergamo, Archivio Capitolare, 4315
- Una charta dell’anno 816La notitia iudicati che ha come rogatore una figura di alto rango quale Audelinda, vedova del conte di Bergamo Auteramo, e che riguarda l’usufrutto da lei concesso alla chiesa di S. Alessandro di una curtis, in sostituzione del censo annuo che Audelinda doveva, per quella e altre corti in suo possesso, venne redatta da Iohannes presbiter sanctae Bergomensis ecclesiae.
Il livello grafico della mano di Iohannes è decisamente notevole, anche nella sicurezza dei tratti cancellereschi che egli mette in mostra nella propria scrittura, la quale rimane tuttavia, di base, una corsiva italiana nuova. L’alto grado di elaborazione – posto che non sia frutto di apprendimento grafico esterno – lascerebbe pensare alla possibile esistenza di una tradizione scrittoria locale di buon livello formale, legata magari alla cancelleria episcopale.
Interessante tra le sottoscrizioni autografe quella di Bornus (r. 11), in minuscola carolina: all’interno del documento Bornus compare in un gruppo che viene definito di Teotischi homines, quindi di individui di stirpe (e tradizione grafica) germanica.
Bergamo, Archivio Capitolare, 4315
- Carvico, loc. San Tomè (scavi 1983-1986)Plastico ricostruttivo (scala 1:20) della chiesa in legno individuata come prima fase di occupazione del sito, a cui seguì (sec. IX) la costruzione di una chiesa in muratura, quindi la costruzione di edifici abitativi esterni a questa, e quindi (sec. XI) la fortificazione mediante un terrapieno.
La struttura originaria della chiesa prevedeva pali portanti al centro della navata infissi direttamente nel suolo; poi questi vennero sostituiti da altri poggianti su basi costituite da lastre di pietra, che ne assicuravano una migliore conservazione. Al di sotto di una di queste lastre è stata rinvenuta una placchetta ageminata di fattura tipicamente longobarda del sec. VII. Questa fornisce una precisa datazione anche per l’edificio, che essendo in legno ha lasciato tracce molto labili (pavimento in terra battuta) e perlopiù “in negativo” (trincee per le travi di fondazione, buchi di palo).
La costruzione con materiali poveri di un edificio di rilievo quale una chiesa è un chiaro sintomo dello scadimento dei livelli di vita materiale e del restringersi delle capacità tecnologiche tradizionali ad ambiti sempre più limitati.
Plastico realizzato dal prof. Elio Bianco (Liceo Artistico Statale di Bergamo)