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Immagini e riflessioni degli studenti delle classi III C e III D del Liceo Classico Statale “Paolo Sarpi”

Civica Biblioteca e Archivi Storici ”Angelo Mai”
Liceo Classico Statale ”Paolo Sarpi”

Bergamo, Atrio della Biblioteca
25 gennaio – 8 febbraio 2005

Il Liceo Classico Statale “Paolo Sarpi” di Bergamo da anni, in collaborazione con l’ANED provinciale, impegna due classi del penultimo anno di corso in una ricerca biennale sulla Shoah che culmina nel pellegrinaggio in alcuni luoghi-simbolo dello sterminio. La responsabilità del progetto, sostenuto anche finanziariamente dal cittadino onorario di Bergamo, lo scienziato italo-americano Andrea Viterbi, è del prof. Giorgio Mangini.

Nell’aprile 2004 sono state protagoniste dell’esperienza le classi II C e II D, preparate e guidate dal prof. Gian Gabriele Vertova. Durante il viaggio gli studenti sono stati accompagnati anche dal direttore della Biblioteca Civica “Angelo Mai”, dott. Giulio Orazio Bravi: da questa collaborazione è nata l’idea, in occasione della “Giornata della Memoria” 2005, di realizzare questa esposizione che documenta l’ esperienza. La bibliografia esposta suggerisce anche titoli disponibili per opportune letture, a partire dai testi letti dagli studenti.

Nei pannelli della mostra le fotografie di alcuni momenti significativi del pellegrinaggio (il viaggio di andata e di ritorno, gli incontri alla Risiera di S.Sabba di Trieste, la lunga visita ad Auschwitz – Birkenau, la sosta al castello di Hartheim) sono accompagnate dal racconto del viaggio, da alcune riflessioni degli studenti che ricordano i momenti che a loro sono sembrati più significativi e da alcune citazioni riprese dai testi di testimonianza o di riflessione da loro studiati in preparazione del viaggio.

E’ disponibile un fascicolo che racconta il pellegrinaggio nelle sue varie tappe, comprese le sintesi di molte relazioni degli studenti.

Il senso di questo impegno del Liceo “Sarpi” e dell’ANED di Bergamo si capisce ricordando che il tratto forse più caratterizzante la civiltà ebraica non è tanto la semplice memoria, ma il precetto del ricordare, l’imperativo, fondamentale anche per la Bibbia, della memoria e della testimonianza. In questi anni in cui scompaiono inevitabilmente gli ultimi testimoni oculari della Shoah, evento unico nella storia per atrocità e complessità, diventa decisivo coinvolgere i giovani nel compito della testimonianza: chi ascolta un testimone diventa a sua volta testimone e abbiamo sempre bisogno di testimoni perché non accada più.

 

PELLEGRINAGGIO AD AUSCHWITZ-BIRKENAU

Pannello 1: Risiera di S. Sabba

Ci dirigiamo verso Trieste con l’obbiettivo di visitare la città e compiere la prima tappa del nostro viaggio alla Risiera di S. Sabba. In preparazione a questo momento, ci viene proiettato un breve filmato che ci fa capire l’importanza di questo luogo (inizialmente concepito come edificio industriale), significativo microcosmo dell’universo concentrazionario nelle sue diverse funzioni: smistamento dei profughi e, in alcuni casi, “luogo di morte”. In seguito ascoltiamo interessati la prima delle relazioni tenuta da Giovanni Bergonzi finché, ormai prossimi all’arrivo, il prof. Mangini, allo scopo di far capire il diffuso antisemitismo all’interno del mondo cattolico nel ventennio, cita un incredibile commento del fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, padre Agostino Gemelli.

Siamo giunti ormai alla Risiera. Qui ci viene presentata la nostra guida, la dott. Màligoi, che ci avverte innanzitutto che siamo giunti in una circostanza particolare: il 4 aprile di 60 anni fa vennero fucilati 50 partigiani allo scopo di “collaudare” il forno crematorio. Ne sopravvisse solo uno, Stefano Rodic (nella foto), ora ottantenne, che, per la prima volta dopo tutti questi anni, è tornato a Trieste per le previste celebrazioni. Abbiamo così la fortuna di vedere uno straordinario testimone, sopravvissuto grazie all’aiuto dei compagni e diventato, in seguito, ingegnere. Segue la testimonianza di Riccardo Goruppi, militante nelle resistenza jugoslava con il padre Giovanni.

Dopo questo momento estremamente importante, iniziamo la visita al Museo. Sostiamo nella Sala delle Croci dove sono stati ricoverati, in bacheche, alcuni oggetti personali trafugati agli ebrei triestini, recentemente donati dalla comunità ebraica di Trieste. Vediamo un’urna con le ceneri provenienti da Auschwitz e altre preziose reliquie, una divisa dei campi, mappe e documenti: alcune opere grafiche (in riproduzione) di Anton Zoran Music e l’ultima lettera di Pino Robusti.

Abbandoniamo la Risiera commossi e ormai totalmente immersi nell’atmosfera di inquieta riflessione che ci accompagnerà per tutto il viaggio. (Daniele Cugini)

 

Il peso della memoria

L’incontro con Stefano Rodic fa riflettere sull’importanza dei sopravvissuti della Shoah, ma anche sul peso che la loro memoria comporta. Testimoniare per loro non è stato affatto facile. Il disinteresse della Società, delle Istituzioni (impegnate nella “ricostruzione” e nella rimozione di una realtà “scomoda”), la diffidenza del mondo storico e l’affermarsi di correnti revisioniste, impedirono, almeno in un primo momento, che queste persone portassero il loro importante contributo. A ciò va aggiunta l’impossibilità di raccontare tutto, i pudori personali, il desiderio di “dimenticare”, di cominciare a ri-vivere e, da ultimo, il senso di colpa per essere stati destinati a sopravvivere, per non essere morti al posto di altri, magari più meritevoli. Ma testimoniare è innanzitutto un dovere, un precetto. Nessuno può testimoniare in vece di un altro. Il testimone si configura come un “profeta”: racconta di un mondo che è stato e, se lui non sarà ascoltato, potrà ripresentarsi. Il nostro compito è ascoltare queste persone e diventare a nostra volta “testimoni”, continuare l’opera che loro hanno iniziato. (Daniele Cugini)

 

Omologazione

La tragicità della Shoah va ben oltre il male fisico e la tortura. Le divise ed il taglio dei capelli erano finalizzate all’omologazione, alla perdita della propria individualità e della dignità di uomo. Il deportato non si configura più come essere umano, ma diviene numero da catalogare, smistare e cancellare. L’obbiettivo stava proprio nel far sì che il mondo dimenticasse queste persone, come se non fossero mai esistite. Ricordare questa tragedia storica significa anche ricordarne ogni singola vittima, sottolineando l’importanza della dignità umana nella sua singolarità. (Selene Cilluffo)

 

Ingresso alla Risiera di S. Sabba

Così comincia il nostro lungo cammino: un vicolo lungo, stretto, buio, chiuso da due muri alti ben undici metri, che incanala le persone nella Risiera. Nascono i primi pensieri mentre una corrente d’aria fredda gela il nostro corpo, pur ben coperto. I muri ci soffocano, ci tolgono il senso della libertà. Il loro grigiore ci rattrista e ci riporta al cupo cielo del gelido inverno o al fumo di un camino. Uno spiraglio di luce filtra dall’alto, sembra un invito a riflettere, a ricordare, compiendo un gesto che forse anche i milioni di deportati tante volte avranno fatto: volgere lo sguardo al cielo, simbolo della libertà, come il bene più prezioso che abbiamo. (Alessia Farina)

 

E’ questa è l’estrema lezione di Geremia: riscrivere è più difficile e più importante che scrivere; trasmettere è più importante che inventare. Con queste parole Ugo Caffaz introduce l’argomento delle leggi razziali, testimonianza di un passato da non dimenticare per non commettere gli stessi errori.

(Discriminazione e persecuzione degli ebrei nell’Italia fascista. A 50 Anni dalle leggi razziali– Consiglio Regionale della Toscana, a cura di Ugo Caffaz, testo letto da Carlo Ghilardi)

 

Discriminare senza perseguire. Quale filo sottile per dividere gli uomini fra buoni e cattivi. Fra innocenti e colpevoli. Perché se poi altri si accaniscono nel “perseguire”, questo riguarda loro, i carnefici. Non si era Pilato lavato le mani, dimostrandosi in tal modo “innocente” della morte di Cristo? Brucia dirlo, ma un orlo nero segna i nostri giorni incolpevoli, senza memoria e senza storia.

(Rosetta Loy, La parola ebreo, testo letto da Alessandro Marongiu)

 

Nella coscienza dell’uomo contemporaneo Auschwitz è un nome-simbolo che occupa il posto dello standard negativo: la vetta di malvagità raggiunta dal genere umano. Questa diffusa certezza di natura etico-politica si sposa ad un’altrettanto diffusa ignoranza storica del problema. […] Estratto dalla storia e collocato sul piedistallo dei simboli universali, Auschwitz diventa qualcosa di sacro, ma anche di sterile, un totem e nello stesso tempo un tabù: l’uomo qualunque ha potuto separarlo da sé, relegarlo tra i “mostri” di una realtà aliena che non gli appartiene e non lo coinvolge. […] La verità è che ritengo quel percorso – Auschwitz come crimine logico di un regime razziale tollerato da una maggioranza silenziosa di borghesi benpensanti – come il più bruciante e scandaloso, il più significativo e attuale. Oggi che la “pulizia etnica” non è più il fantasma di un passato lontano bensì la parola d’ordine di nuovo capace di muovere eserciti alle porte di casa nostra.

(Giovanni Gozzini, La strada per Auschwitz, testo letto da Federica Cinardo)

 

Pannello 2: Viaggio d’andata

Sabato 3 aprile, h. 5.30… Eccoci in partenza, pronti per un viaggio d’istruzione che si prospetta ricco di esperienze toccanti e significative. La nostra ultima meta è Auschwitz, ma il percorso è costellato da molti altri luoghi importanti per la nostra cultura e per la nostra memoria. Siamo stati preparati da vari incontri tenutisi durante l’anno precedente con Marcello Pezzetti e Bruno Segre, da una giornata trascorsa sul Monte Avaro e da letture riguardanti l’ebraismo e il tema della memoria. Il tempo trascorso sul pullman non è stato sprecato, ma vissuto in modo fruttuoso e istruttivo: filmati e relazioni degli studenti hanno contribuito ad approfondire ulteriormente un tema così complesso e ricco di sfumature come quello della memoria ebraica. Il primo filmato proiettato ci presenta in breve, in preparazione alla visita alla risiera, il tema del luogo della memoria. Poi è la volta degli studenti che hanno preso in considerazione testi noti ed importanti. Il via è dato dalla presentazione della condizione degli ebrei italiani sotto il fascismo, significativa in vista dell’arrivo alla meta designata. Dalla Risiera ci rechiamo poi a Trieste per una visita della città; in seguito ci dirigiamo a Villach, piccolo paesino sulla Drava nel quale trascorriamo la notte, prima di riprendere il viaggio per Vienna. Proseguendo nel nostro percorso, proseguono anche le relazioni: leggi razziali, razzismo e antisemitismo; temi intramezzati anche da un filmato di Moni Ovadia che, con grande autoironia, ripropone i luoghi comuni che accompagnano i pregiudizi sugli ebrei.

Arriviamo a Vienna dove, accompagnati dalla guida Laura, vediamo i luoghi più significativi della città, per dirigerci poi verso la Polonia. Attraversando paesaggi incantevoli e pianure sterminate, accogliamo la guida Agniezska Kowalik Urbaez. che ci accompagnerà per tutto il viaggio in Polonia. Raggiungiamo così Cracovia, città polacca nella quale lo stile di vita è ben diverso rispetto a quello delle campagne: più ricco e più simile a quello delle capitali occidentali. Dopo aver ammirato la piazza centrale, testimonianza storica di rara bellezza, ritorniamo in hotel per una notte di riposo prima della giornata più attesa: il 6 aprile con la visita ad Auschwitz. (Alessia Faccini)

 

La Polonia oggi

Oggi la Polonia, a cavallo tra la fine della dittatura comunista e il recente ingresso nell’UE, sta attraversando una fase di passaggio difficile e vive una crisi politica, sociale ed economica non molto lontana da quella del ‘89. La politica non sa affrontare i problemi del Paese con risposte efficaci e un governo stabile. Anche la Chiesa ha perso il suo ruolo di guida religiosa e morale del popolo polacco. L’economia del paese è povera e arretrata: le uniche fonti di vita dignitosa sono le rimesse degli emigranti o l’impiego nelle multinazionali che pagano bene i loro giovani quadri, mentre è alto il tasso di disoccupazione e l’emigrazione è ancora una scelta per molti. (Attilio Burti)

 

Un viaggio di studio

Fondamentali durante il viaggio in pullman sono stati i momenti di lavoro e riflessione. Ogni studente aveva preparato una recensione di un libro consigliato dal Prof Vertova, pertinente con il grande tema della “Shoa”. Ciascuno ha esposto a compagni e accompagnatori il suo lavoro. L’ascolto di storie, ricerche, studi e riflessioni è stato determinante anche per fissare nella mente di noi studenti le esperienze appena vissute e per approfondire la nostra conoscenza dell’argomento storico-culturale. (Filippo Bongini)

 

Un paesaggio desolato

Durante il viaggio in pullman ho potuto osservare le distese discontinue del paesaggio slovacco, a me sconosciuto. Il paesaggio, brullo e povero, mi ha trasmesso un forte senso di desolazione consentendomi di immergermi a pieno nella meditazione personale. (Giuseppe Zevolli)

 

Il pomodoro è un frutto o una verdura? Per un botanico è senza dubbio un frutto, per un cuoco una verdura, ma che cosa ne direbbe un pomodoro? Se mai gli accadesse di pensarci, soffrirebbe probabilmente della stessa crisi d’identità che tormenta gli ebrei non appena qualcuno tenta di inquadrarli come razza, gruppo etnico o religione.

(Norman Solomon, L’Ebraismo, testo letto da Giuseppe Zevolli)

 

Accusati di essere causa dell’epidemia e ritenuti colpevoli di omicidi rituali di bambini e profanazione di ostie sacre cominciarono ad essere perseguitati e costretti a scappare e a convertirsi… Tra il 1555 e il 1700 tutti gli stati che avevano espulso gli ebrei finirono per chiuderli in ghetti. Essi inizialmente non opponevano resistenza ma vedevano nel ghetto una forma di protezione e difesa… L’emancipazione, cioè il fatto che gli ebrei possano godere di tutti i diritti politici, porta con sé l’idea che l’uguaglianza degli ebrei sia una condizione necessaria per lo sviluppo civile dell’intera società.

(Anna Foa, Ebrei in Europa, testo letto da Federica Blandini e Jenny Locatelli

 

Parlo a nome del viandante,perchè mi sento molto viandante e mi domando: devono tirarmi l’ombelico o no? Certamente io rispondo di no, ma perchè? Non tanto perchè mi fa male, non è questo il problema,perchè io chiedo agli uomini-pianta,ringraziandoli per il loro atteggiamento fraterno e solidale,di fare uno sforzo per conoscermi nella mia autonomia per che sono e non per quello che dovrei essere secondo le loro categorie culturali”.

(Amos Luzzatto) Il racconto è evidentemente simbolico, la metafora è abbastanza chiara:il viandante rappresenta tutto il popolo ebraico e le colonne della foresta sono semplicemente i popoli “normali” i quali, mossi da spirito umanitario e civile, vogliono “normalizzare” anche il popolo ebraico, suo malgrado, costringendolo ad allungare il suo cordone ombelicale. (Francesca Colleoni)

 

 

Pannello 3: Auschwitz 1

Martedì, 6 aprile. La sveglia è piuttosto presto, alle 6.30, oggi è la giornata più importante per la visita ai campi di Auschwitz. Ci avviamo attraverso la campagna. Il prof. Mangini legge qualche pagina da “Campo del Sangue” del romanziere-insegnante Eraldo Affinati, che racconta del suo percorso della memoria fino ad Auschwitz. La visita di oggi, molto impegnativa, ha una prestigiosa guida: lo storico del Museo di Auschwitz Henryk Swiebocki. Sappiamo che, oltre che uno studioso, è un testimone: Karol, suo padre, esponente della Resistenza antinazista, fu ucciso nelle camere a gas.

Auschwitz (Osvincim, Oswiecim in polacco) è un sistema di campi, quello propriamente di Auschwitz è più vicino, per molto tempo fu solo maschile ed è il primo che visitiamo, Birkenau è più lontano (a tre km) e lo visiteremo al pomeriggio. Si stima che le vittime dello sterminio siano state 1 milione e mezzo. Quante volte abbiamo visto l’immagine dell’ingresso con quella scritta: “Arbeit Macht Frei”… Questo primo campo era stato costruito in realtà come una caserma polacca. Solo dal 1940 fu adibito a campo di concentramento. Dal marzo del 1942 fu realizzato il muro di separazione fra uomini e donne.

Vediamo alcuni fabbricati, il blocco n.20, l’infermeria, poi ci viene indicato, accanto al blocco degli esperimenti del dott. Klauber (con le finestre sprangate), il muro delle fucilazioni: non si tratta di quello autentico, ma è stato ricostruito con lo stesso materiale. I condannati uscivano dal blocco di fronte, detto della morte. Una polveriera venne adattata a piccola camera a gas e crematorio. Qui ci fermiamo in un momento di silenzio e di riflessione: questo nostro piccolo rito non lo dimenticheremo mai… (Erika Maffioletti)

 

“ARBEIT MACHT FREI”: il lavoro rende liberi…

“La vita di Henryk Swiebocki, nostra guida ad Auschwitz, è irrimediabilmente quanto drammaticamente connessa al campo stesso. Nonostante vi abbia trascorso momenti tragici e lasciato molti cari, ha vinto il senso di ripulsa cha ha impedito ad alcuni dei suoi compagni di sventura di tornare ai campi e anzi vi ha stabilito una sorta di simbiosi diventandone archivista. Il caldo “Cari amici!” con cui ci chiamava a sé, era un conforto in mezzo a tanta desolazione, almeno quanto la sua stessa presenza, emblema di vita e di perdono che sopravvive ad ogni aberrazione”. (Carlo Donadoni)

 

“Nel lager di Auschwitz, tra i vari luoghi inquietanti in cui si consumarono svariate atrocità, c’è una zona particolarmente agghiacciante: il muro delle fucilazioni, dove molti deportati vennero fucilati, di fianco le celle dei prigionieri, troppo piccole in proporzione al numero degli occupanti, e i bunker della fame, in uno dei quali fu rinchiuso Massimiliano Maria Kolbe, scrittore e apostolo mariano dei frati minori conventuali, deportato ad Auschwitz nel luglio del 1941. Il prete polacco offrì la sua vita per salvare quella di un padre di famiglia condannato con altri nove uomini alla morte di fame nel bunker. La sua cella della morte è ora mèta di pellegrinaggi e San Massimiliano Kolbe ha gli onori della Chiesa ed è un faro che non si spegne per tutti gli uomini”. (Giuseppe Rizzo)

 

“Oh, i camini/ sulle ingegnose dimore della morte/ quando il corpo di Israele si disperse in fumo/ per l’aria- / e lo accolse, spazzacamino, una stella/ che divenne nera/ o era forse un raggio di sole? Oh, i camini!/ vie di libertà per la polvere d iJob e Geremia – / chi vi ha inventato e, pietra su pietra, ha costruito/ le vie per i fuggiaschi di fumo?/ Oh, le dimore della morte,/ invitanti per la padrona di casa/ altrimenti ospite – / Oh, dita/ che posate la soglia/ come un coltello fra la vita e la morte – / Oh, i camini./ oh dita./ e il corpo d’Israele in fumo per l’aria!”.

(Nelly Sachs Oh, i camini, testo letto da Marzio Marino)

 

“Non c’è Dio in voi! Aprite le porte, cieli, spalancatele, e lasciate entrare i figli del mio popolo massacrato, del mio popolo torturato. Aprite le porte per la grande ascensione: un intero popolo crocefisso sta per arrivare… ognuno dei miei figli massacrati può essere un Dio!”.

(Yitzhak Katzenelson, Il Canto del popolo ebraico massacrato, Canto IX “Ai cieli”, testo letto da Marzio Marino)

 

“Sull’album fotografico dell’ultimo comandante del campo di Treblinka spiccava la scritta “Schone Zeiten” (bei tempi). Ora si può leggere solo “Zeiten”, il resto venne raschiato via dopo il 1945, così come furono staccate due foto. E come il comandante cercò di cancellare le tracce del suo turpe passato, così l’RSHA –dipartimento centrale di sicurezza del Reich- ordinò la riapertura di tutte le fosse comuni per bruciare i corpi degli ebrei e disperderne le ceneri, nel vano tentativo di non lasciar traccia di questa strage”.

(Bei Tempi. Lo sterminio degli Ebrei raccontato da chi l’ha eseguito e da chi stava a guardare, a cura di Klee-Dressen- Riess, testo letto da Monica Cortesi)

 

“Himmler, anche quando raggiunse l’apice del potere, rimase una figura più privata che pubblica. Egli sembrava una persona placida e tollerante e, durante l’Olocausto, i suoi tratti personali si manifestarono nella preparazione di piani segreti, nelle misure prese per ingannare le vittime, nella documentazione delle imprese compiute. Non fu solo un sadico e un assetato di sangue: la sua brutalità fu più frutto di apprendimento che di istinto e di passione; l’ampiezza del compito richiese una sistematica pianificazione e l’uso dell’inganno per confondere le vittime. Egli fu “il burocrate per eccellenza”

(Richard David Breitman, Himmler, il burocrate dello sterminio, testo letto da Sara Rovaris)

 

“Pressato da tutte queste circostanze, a mia volta non concedevo tregua ai miei sottoposti, fossero SS, impiegati civili, ufficiali, ditte o prigionieri. Un pensiero soltanto era fisso nella mia mente: proseguire, far avanzare il lavoro per poter attuare le disposizioni ricevute. Himmler esigeva l’adempimento del dovere, l’impegno dell’intera personalità, fino al sacrificio di sé. Ciascuno in Germania doveva impegnarsi fino in fondo perché potessimo vincere la guerra. Per sua volontà, i campi di concentramento erano diventati vere fabbriche belliche, e a questa attività si doveva subordinare ogni cosa, di fronte ad essa dovevano cadere tutte le considerazioni di qualsiasi genere”.

(Rudolf Höss, Comandante ad Auschwitz, testo letto da Stefano Lamera)

 

 

Pannello 4: Auschwitz

Martedì, 6 aprile. Ora siamo proprio qui. Siamo arrivati al campo di Birkenau o Auschwitz 2, immenso (175.000 ettari) forse il più “famoso”, un nome che quasi per antonomasia si associa alla Shoà, inevitabilmente. Appare nelle canzoni, nelle poesie, nella memoria di tante persone.

Siamo nelle prime ore del pomeriggio; sempre accompagnati dal gentilissimo Henryk Swiebocki, varchiamo la soglia del campo, la stessa sotto la quale tante volte è passato quel treno, di cui rimangono ancora le rotaie a testimonianza.

La realizzazione di Auschwitz 2 fu diretta dallo stesso Himmler, dopo un’ispezione al primo campo.(Auschwitz1). Per realizzarlo in condizioni di sicurezza fu necessario abbattere diverse case (poi ricostruite dopo la guerra) del villaggio polacco di Wielynska. Il nome tedesco Birkenau è stato ricavato dalle betulle della zona (betulla = birka in tedesco). Saliamo sulla torretta di guardia dalla quale si domina il campo in tutta la sua estensione: sulla immensa spianata si vedono bene la recinzione, l’unica fila di baracche rimasta, gli alberi e le ciminiere dei crematori sul fondo del campo, le case in murature polacche.

Ora il paesaggio non è certo quello di 60 anni fa: non c’era l’erba e quest’aria tranquilla che oggi si respira, ma fango e terra e uomini e SS(4000/5000) e urla e morte erano quotidiani, qui ad Auschwitz.

Camminiamo. Fischia un vento gelido e siamo solo ad Aprile. Costeggiamo le rotaie del treno: è quello il luogo dove avveniva la prima selezione dei deportati, ovvero la separazione tra chi poteva vivere ancora un po’e chi invece veniva subito gassato. La guida ci racconta la storia di un bambino, Luigi Ferri, che riuscì a sopravvivere ad Auschwitz, aiutato dai deportati che lo nascosero per qualche mese tra di loro, impedendo che venisse subito ucciso.

Ci dirigiamo all’interno delle baracche rimaste, che fungevano da dormitori, alcune, e altre da latrine e lavatoi: non c’è pavimento in cemento, né soffitto, solo legno, pieno di spifferi, spoglio scomodo; un solo letto serviva per 6/8 persone.

È così strano essere qui, e ascoltare ciò che ci viene raccontato, non può essere vero… eppure è tremendamente reale.

 

Uno spazio immenso!

In un solo colpo d’occhio non si può inquadrare l’intero campo. Occorrono molteplici sguardi, da angolature e posizioni diverse, per cercare di trovare un limite fisico alla successione di baracche e di ciò che ne resta, che si perdono nel paesaggio. L’infinità e l’immensità di questa “macchina di morte” sovrasta e schiaccia l’uomo che la osserva e affatica psicologicamente, passo dopo passo, chi vi si addentra per comprenderla. (Eleonora Carminati)

 

La recinzione.

“Una sera sono andata sulla soglia della porta della baracca e c’era una luna grande. Mi ha preso un’angoscia, un male fisico, una nostalgia così dolorosa della mia gente, della mia terra, di casa.” Con questa parole Ondina Pantani racconta ciò che la sua fantasia creava al di là di quei fili che la escludevano dal mondo. La recinzione era il primo passo per sognare e l’immaginazione restituiva dignità e consapevolezza di esistere. Quando io, visitatrice, ho visto quel confine che divideva la morte dalla vita mi sono sentita svuotare, mi è sembrato che tutto attorno a me non avesse un senso. Credo che guardare oltre quella realtà incredibilmente triste, restituisse agli animi il desiderio di vivere. Liliana Segre alzava gli occhi al cielo, sopra il filo spinato di Auschwitz, guardava le stelle lontane e pensava di essere una stellina, di non essere lì, di essere libera. (Erica Cassi)

 

Solo un riflesso di luminosità innaturali in continuo spostamento, un susseguirsi monotono ma familiare di suoni e rumori, ma anche strumento portatore di morte e dolore. Distruttore di tante e anche uniche speranze, vite ed emozioni che si spensero in quell’indicibile universo che sorgeva al di là del “cancello della morte”.

Orizzonte dominato dai camini dei crematori, che benché siano stati distrutti, non possono infangare ciò che è stato e non può essere ripetuto. La residenza della morte e la demolizione di un uomo. (Arianna Bennato)

 

Io non sentivo la paura, ma solo la tristezza della morte, e mi tormentava l’inutilità crudele di questa parentesi di esistenza sospesa tra due nulla. lo ero, ancora, e domani non sarei stata più. A che giovava la sofferenza racchiusa nei due termini? Forse un Dio mi guardava, dall’alto dei cieli? E perché mi aveva fatto nascere se ero destinata a soffrire e sparire così? Non aveva compassione, questo Dio? Nessuno, nel mondo e fuori del mondo, aveva compassione. Noi eravamo sole ed abbandonate; nessuno e niente poteva venire in nostro conforto, nemmeno il pensiero di coloro che amavamo e che un giorno, dopo averci piante, sarebbero pure tornati a sorridere.

(Liana Millu, Il fumo di Birkenau, testo letto da Alice Santinelli)

 

Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le S.S. intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati incatenati, e tra loro il piccolo pipel, l’angelo dagli occhi tristi.

Le S.S. sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissi sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva.

Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia.

Tre S.S. lo sostituirono.

I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi.

– Viva la libertà! – gridarono i due adulti.

Il piccolo, lui, taceva.

– Dov’è il buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me.

Ad un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte.

Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava.

– Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo.

– Copritevi!

Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…

Più di mezz’ora restò così, a lottare tra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti.

Dietro a me udii il solito uomo domandare:

– Dov’è dunque Dio?

– E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:

– Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…

Quella sera la zuppa aveva un sapore di cadavere.

(Elie Diesel, La Notte, testo letto da Sara Corona)

 

 

 

Pannello 5: Birkenau, le tracce dello sterminio

Appena giunti a Birkenau, toccante è stata la vista della “porta della morte” dove arrivava il treno. Qui nel maggio 1944 giunsero 400.000 ebrei ungheresi. Il nome tedesco Birkenau, attribuito al campo, è stato ricavato dalle betulle della zona (in tedesco Birka = Betulla). La realizzazione del campo fu compiuta dallo stesso Himmler, dopo un’ispezione al primo campo, Auschwiz 1. Per realizzarlo in condizioni di sicurezza fu necessario abbattere diverse case del villaggio polacco di Wielynska. Dopo aver attraversato la porta, siamo saliti sulla torretta di guardia per osservare l’estensione immensa del campo di Birkenau. Seguiti i binari del treno fino al luogo dove avveniva la selezione, abbiamo visto il fabbricato con lavatoi e latrine. Qui vi era scritto “rimanete calmi, in silenzio”. Ci viene fatto notare che fu costruito solo nel 1944, prima infatti non esisteva e per i bisogni venivano utilizzati i fossati. L’unico luogo dove poteva scorrere l’acqua era la cucina, ma era proibito entrare. In seguito siamo entrati in una baracca “normale”. Lo stomaco ci si stringe e un brivido ci percorre la schiena alla visione che ci si prospetta davanti: non c’era cemento per terra e il tetto era senza soffitto. In ogni piano del giaciglio si dovevano sdraiare sei/otto persone. Poi siamo passati davanti alle rovine del crematorio n.° 2 e delle camere a gas. Continuando il nostro percorso siamo entrati nelle baracche per la sauna, qui Giovanni suona una melodia irlandese al flauto dolce di fronte ai nostri volti sconvolti e agli innumerevoli volti ritratti nelle fotografie di alcune vittime dello sterminio riportate su un pannello. Una volta usciti, abbiamo visto le rovine del crematorio n.° 4 che fu distrutto nell’insurrezione degli ebrei del Sunderkommando e lo stagno dove venivano buttate le ceneri. L’atmosfera di morte si fa sempre più opprimente quando entriamo in un’ultima baracca di legno: si trattava di una scuderia pensata per 92 cavalli e riciclata per ospitare 900/1000 persone. Infine ci viene detto dalla nostra guida che fu costruita una chiesa cattolica fuori dal campo dopo molte polemiche: infatti Birkenau è un luogo dove la violenza fu soprattutto rivolta ai credenti di religione ebraica. Dopo essere saliti sul pullmann in religioso silenzio il nostro viaggio continua. (Angelica Riccietti)

 

Il laghetto delle ceneri

Uno dei luoghi all’aperto in cui venivano arse le spoglie delle persone uccise. L’atmosfera è cupa e mesta unita ad un sentimento di tristezza nei confronti delle vittime che non hanno ricevuto sepoltura. Primo Levi scrive: “la nostra lingua manca di parole per definire quest’offesa….la demolizione di un uomo”. Lì giacciono le ceneri delle vittime del campo, come ricorda anche la scritta sulla lapide: “In memoria degli uomini, delle donne e dei bambini vittime del genocidio nazista. Qui si trovano le ceneri. Che riposino in pace”. (Maria Vittoria Capoferri)

 

Le camere a gas

Bisogna che le generazioni future sappiano e ricordino la crudeltà sistematica e omicida degli assassini, l’agonia lenta e lucida delle vittime, la generosità dei bambini, il coraggio delle ragazze nelle camere a gas, perché qui moltissime persone venivano tratte in inganno con la scusa di andare a fare la doccia, mentre invece le attendeva un destino ben più crudele. (Martina Stucchi)

 

Le baracche

Le baracche sono strutture all’interno delle quali vi sono i giacigli per prigionieri del campo. Le baracche adibite a questa funzione non hanno cemento per terra e il tetto è privo di soffitto. I giacigli sono dislocati su più piani ed ogni piano del giaciglio ospita 6-8 persone. Vi sono poi anche le baracche per la sauna: esse presentano una sala per la registrazione e un deposito degli abiti. Qui ai prigionieri venivano tagliati i capelli, venivano perquisiti e dopo essere passati per una vasca disinfettante erano indirizzati alle docce. È impressionante vedere il cumulo dei resti degli oggetti del campo in questi luoghi. (Paolo Scainelli)

 

Momento musicale

Ad Auschwitz, la ‘sauna’era il luogo costruito dai nazisti dove gli ebrei venivano lavati, rasati e i vestiti sterilizzati a vapore. Questa procedura nasceva dalla paura dei nazisti per lo scoppio di una epidemia all’interno del campo e dalla fobia di esserne contagiati. Nella sauna oggi sono ancora visibili gli spogliatoi, le sale comuni, i carrelli per i vestiti e le macchine per la disinfezione. Nel vuoto del locale più grande sono esposte centinaia di foto di famiglie di ebrei, infilate rapidamente in valigia al momento della deportazione. Foto di giovani coppie, nonni, bambini, grandi famiglie, amicizie: foto di persone sparite nel nulla, di cui spesso non è rimasto neppure un nome. Lì, in mezzo ai miei compagni studenti, con un po’di emozione ho suonato al flauto la melodia dolce di una canzone irlandese sul tema del ritorno a casa, in memoria di quelle persone e dei loro ritorni mancati. (Giovanni Bergonzi)

 

Le ultime notizie dicono che tutti gli ebrei saranno deportati dall’Olanda in Polonia, passando per il Drenthe. E secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. Se rimarremo vivi, queste saranno altrettante ferite che dovremo portarci dentro per sempre. Eppure non riesco a trovare assurda la vita. E Dio non è nemmeno responsabile verso di noi per le assurdità che noi stessi commettiamo: i responsabili siamo noi! Sono già morta mille volte in mille campi di concentramento. So tutto quanto e non mi preoccupo più per le notizie future: in un modo o nell’altro, so già tutto. Eppure trovo questa vita bella e ricca di significato. Ogni minuto.

(Etty Hillesum, Diario, testo letto da Valentina Porcino e Ambra Saffioti))

 

Nella barbarie concentrazionaria si possono individuare le basi di una morale adeguata al nostro tempo: non tanto nel suo aspetto “eroico”, nelle gesta resistenti, quanto piuttosto nell’esperienza quotidiana apparentemente meno memorabile di chi ha vissuto con gli altri in condizioni impossibili, riuscendo a salvaguardare e spesso a glorificare la propria umanità”.

“Nelle situazioni estreme è a vivere che servono delle virtù, denominate, quotidiane: esse sono atti di volontà, sforzi individuali con i quali si rifiuta ciò che appariva una implacabile necessità. Virtù come la dignità, l’altruismo e la morale possono essere considerate tali, molte delle quali, nelle situazioni estreme e nella fattispecie nella vita dei deportati nei lagher nazisti, sono state strappate o più semplicemente non sono state messe in pratica.

(Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, testo letto da Angelica Riccietti)

 

Furono stipati all’interno [quanti più ce ne stavano]. […] Chi non voleva entrare, venne ucciso per la sua [resistenza] o sbranato dai cani. […] Alcuni si lamentarono con la voce spezzata dalla disperazione, altri ancora singhiozzarono convulsamente, finché si levò un pianto di terrore. […]

Via via le loro voci si trasformarono in rantoli; il gas era già penetrato nei polmoni. Alla fine stramazzarono. […] Morendo, a causa della mischia, i corpi cadevano gli uni sugli altri, finché si creava un mucchio, cinque o sei strati accatastati uno sopra l’altro sino all’altezza di un metro. Le madri rattrappite per terra in posizione prona, abbracciavano i figli, gli uomini morivano abbracciando le mogli. […] Qualcuno, per effetto del gas, era divenuto completamente blu, altri, invece, avevano un aspetto riposato, pareva dormissero. […] Come ho saputo più tardi, anche mia moglie e mio figlio erano in questo gruppo.

(La voce dei sommersi – Manoscritti ritrovati di membri del Sonderkommando di Auschwitz, testo letto da Angela Confalonieri e Carlo Donadoni).

 

 

Pannello 6: Il castello di Hartheim

In mattinata siamo giunti al castello di Hartheim, nei pressi di Linz, nell’Austria settentrionale.

Il castello, edificato nel periodo rinascimentale, venne trasformato nel 1940 in uno dei sei luoghi “di assistenza sociale” che furono creati dai nazisti: in questo modo veniva presentato al pubblico e alle vittime lì deportate quello che in realtà era un luogo di sterminio, dove veniva praticato, ad opera degli uomini delle SS, il programma d’azione T4, nome in codice che indicava il centro organizzativo della “Fondazione di utilità pubblica per la cura e il ricovero in istituti”, eufemismo sotto cui si celava il “Programma di Eutanasia”.

In questo luogo vennero infatti raccolti per essere uccisi nelle camere a gas i malati fisici e psichici, gli invalidi e i portatori di handicap, provenienti da istituti di cura o dai Lager. Nel corso dell’intera operazione trovarono la morte complessivamente oltre 70.000 vittime. In questo modo i nazisti portarono a termine l’eliminazione di coloro che ritenevano vivessero “una vita inutile”(lebensunwerten Lebens), perché costosa per la comunità, improduttiva economicamente e dannosa perché macchiava la purezza della razza ariana.

I malati venivano caricati su degli autobus che avevano i vetri oscurati e che non dovevano fermarsi a nessun posto di blocco. Una volta giunti al castello venivano subito introdotti, attraverso una entrata non visibile dall’esterno, in un camera a gas che aveva l’aspetto di “doccia”. Un forno crematorio provvedeva alla eliminazione dei cadaveri, le cui ceneri venivano poi disperse nel Danubio.

Il castello è stato recentemente ristrutturato, perciò quel che noi abbiamo visitato è la ricostruzione di come doveva essere l’edificio all’epoca del suo utilizzo da parte dei nazisti che, prima della loro sconfitta, tentarono di far scomparire ogni traccia dei loro crimini. Nel castello è attualmente presente un museo in cui una parte documenta le atrocità dello sterminio, mentre un’altra propone progetti e idee per l’integrazione e la possibile vita serena delle persone portatrici di handicap. (Marta Leoni)

 

L’action T4

All’improvviso la luce si spegne e l’uomo non vede più nulla, brancola nel buio. Come è possibile infatti che non riesca più a riconoscere se stesso? Talmente debole che vede come suoi unici caratteri la forza e la produttività e così cieco da non considerare umano chi questa forza e questa produttività non la può esprimere, come i malati di mente e gli infermi. Sotto la presunta superiorità della razza si cela una grande paura che rende vile l’agire dei nazisti. Viene compiuto, coperto dal segreto di Stato, un programma di eliminazione minuzioso (attraverso una fitta rete di medici collaboratori), che porterà ad un totale di 70000 vittime,inconsapevoli di trovare la morte attraverso l’inalazione del monossido di carbonio nelle finte docce del castello rinascimentale di Hartheim. È l’orribile inizio di una tragedia ben più estesa. (Sara Corona)

 

Gli zingari

Non c’erano solo Ebrei… Tra il 12 ed il 18 giugno del 1938 la “settimana di pulizia antizingara” fu attuata in tutta la Germania. Come accadde agli Ebrei nella notte dei Cristalli, questa settimana di razzie segnò l’inizio della fine. E’ infatti a partire dal 1938 che ritroviamo il primo riferimento scritto in merito alla “Soluzione finale della questione zingara”. Nel gennaio del 1940 ha luogo la prima azione genocidaria dell’olocausto contro gli Zingari: più di 250 bambini vengono uccisi a Buchenwald, dove venivano utilizzati come cavie per testare l’efficacia dei cristalli di Zyklon-B, che sarà utilizzato in seguito nelle camere a gas. Circa 500000 Zingar furono vittime del Porrajmos cioè dell’olocausto nazista molti dei quali vennero sterminati non solo nei campi di concentramento ma anche al castello di Hartheim poiché catalogati come malati mentali. (Roberta Mazzoleni)

 

I testimoni di Geova

“I regimi totalitari non limitano le loro attività alla politica. Esigono l’intera persona”.

I veri cristiani non possono cedere l’“intera persona” a un governo umano, poiché hanno giurato lealtà assoluta a Geova Dio soltanto; i Testimoni che vivono sotto regimi dittatoriali hanno riscontrato che a volte c’è contrasto fra ciò che richiede lo Stato e ciò che richiede la loro fede. Migliaia di Testimoni sono rimasti leali alla propria fede e si sono mantenuti neutrali nei confronti degli affari politici, anche davanti alla persecuzione più crudele.

(Tratto dalla rivista Svegliatevi!, da Laura Liberatore)

 

Gli zingariTra i gruppi considerati “indegni di vivere” secondo i più alti funzionari dell’impero tedesco, figuravano oltre agli Ebrei anche coloro che soffrivano di “malattie mentali incurabili”: è all’interno di questa categoria che venivano collocati gli Zingari. La “criminalità” zingara era percepita come una malattia geneticamente trasmissibile; il fatto che secoli di esclusione e di isolamento totali avessero costretto gli Zingari al furto come mezzo di sopravvivenza era completamente ignorato. Una legge che affermava questo principio indiscutibile entrò in vigore 4 mesi dopo che Hitler era divenuto Cancelliere del III Reich”.

(Donald Kenrick, Il destino degli zingari, testo letto da Roberta Mazzoleni)

 

Il “Vicario”

Il dramma di Hochhuth non si fa scrupolo di chiamare le cose col proprio nome; fa vedere che una storia che è stata scritta col sangue di milioni di innocenti non può decadere o invecchiare; attribuisce ai colpevoli la loro parte di colpa; e ricorda a tutti gli interessati che era data loro la possibilità di scegliere, e che in realtà hanno scelto anche quando hanno creduto di non scegliere. “Il Vicario” smentisce tutte le menzogne che affermano che oggi non è più possibile un dramma storico come dramma storico della scelta, dal momento che l’uomo non è più in grado di scegliere nella generale anonimità e impersonalità delle norme e delle coercizioni socialpolitiche in cui tutto è già deciso ab initio.

(dalla Notadi Erwin Piscador al Vicariodi Rolf Hochhuth, testo letto da Marco Castelli)

 

 

 

Pannello 7: Viaggio di ritorno

Dopo la visita al castello di Harteim, risaliamo sul pullman, dove ascoltiamo un toccante brano musicale del gruppo “Ranking family”, con nel cuore sentimenti di solidale affetto per quei bambini sterminati. Grazie a testi come la “Banalità del male” o “Le origini del totalitarismo” di Anna Harendt, relazionati da Caterina, Erika ed Alessia, riflettiamo sul male estremo di cui l’uomo si può macchiare.

Verso la fine del il viaggio, il prof. Mangini lascia il “microfono aperto” per permettere a chi vuole di esprimere qualche riflessione: se all’inizio nessuno osa farsi avanti, man mano si prende coraggio, tanto che nel giro di pochi minuti si susseguono “a raffica” una serie di profondissimi interventi che rivelano l’importanza e l’alto valore morale del pellegrinaggio che purtroppo volge al termine. Con l’intervento del dott. Bravi, la lunga serie di riflessioni si chiude lasciando campo libero di nuovo al prof. Mangini per ricordare l’importante impegno dello scienziato italo-americano prof. Viterbi, che ha finanziato questo viaggio della memoria.

Arriviamo a Bergamo verso le 23, stanchi ma contenti e profondamente convinti dell’importanza del nostro cammino. “Ricordiamoci di ricordare”!. (Giulio Pezzetti)

 

“Microfono aperto”: riflessioni sul pullman

“Credo che il silenzio esprima nel modo migliore le sensazioni che sto provando… emozioni, pensieri, sentimenti, riflessioni… ho la mente confusa!!! Amore, odio, tristezza, gioia… possono solo concretizzarsi in lacrime di memoria!”. (Angelica Riccietti)

 

“Siamo sulla strada del ritorno, carichi di stanchezza ma anche di emozioni: la paura, il dolore, il dubbio, la riflessione… ho mille cose per la testa, frullano i pensieri… devo ancora riordinare tutto, devo chiarire le idee per poter ricavare qualcosa di pratico, o almeno qualche parola per esprimerle… è stata un’esperienza che deve valere per la nostra testa, il nostro cuore, la nostra vita…”. (Alessia Farina)

 

“In questi sei giorni così intensi, belli, unici ed indimenticabili mi sono sentita nello stesso tempo importante e inutile, e adesso tornare alla mia vita mediocre mi spaventa…”. (Roberta Mazzoleni)

 

“A caldo è difficile rendersi realmente conto di ciò che abbiamo vissuto. Solo a casa tra alcuni o molti giorni sperimenteremo l’elevatezza della nostra esperienza. E nel tramandare ai nostri familiari, fratelli, amici, vicini, conoscenti il nostro cuore si stringerà, ci farà male la testa, la pelle s’accapponerà… e le parole spesso non usciranno davanti all’inumano, alla strage, agli orrori visti e ascoltati… la responsabilità sarà comunque troppo grande, il fatto non commentabile… lasceremo la responsabilità alle immagini, alle foto che abbiamo fatto, a un gesto, una musica… ma nulla ci fermerà… per sempre parleremo di questo nostro pellegrinaggio e mai ci stancheremo di ricordare di ricordare!”(Erika Maffioletti)

 

L’importanza dell’esperienza comune

“Il nostro è stato un viaggio nel passato, in quelle tragedie storiche che non vanno dimenticate, ma dove la memoria si impone come un dovere. È stata un’esperienza psicologicamente impegnativa e difficile, vissuta nella condivisione con gli altri delle proprie emozioni. La possibilità di parlare, di confrontarsi con gli amici su temi di tale profondità ha arricchito ulteriormente il nostro pellegrinaggio. Abbiamo riflettuto insieme sul dovere e sulla difficoltà di ricordare e di raccontare ciò che abbiamo vissuto nella condivisione di dubbi, sensazioni, lacrime e pensieri. Non è semplice comprendere un avvenimento come la Shoah: noi abbiamo fatto solo un primo passo, ma l’importante è che l’abbiamo fatto insieme”(Eleonora Quadri)

 

Andrea Viterbi: finanziare la memoria

“Se abbiamo avuto la fortuna di compiere questo nostro pellegrinaggio, dobbiamo essere vivamente riconoscenti allo scienziato italo-americano prof. Andrea Viterbi, la cui levatura morale ed intellettuale spinge a finanziare con ingenti contributi gli alti e nobili progetti del “Sarpi” e dell’”Aned”. Il suo impegno sia un esempio esplicito di cosa significhi portare il pesante fardello della memoria, impedire che ciò che è stato cada nel dimenticatoio dell’indifferenza e dell’oblio. Tutti noi, sulle tracce di Viterbi, abbiamo il dovere etico e civile di “ricordarci di ricordare”, per evitare che questo orribile abominio della Shoah torni ad essere”. (Giulio Pezzetti)

 

 

 

“Di uomini come Eichmann ce ne erano tanti […], né perversi né sadici, bensì erano – e sono tuttora – terribilmente normali. Dal punto di vista delle nostre istituzioni giuridiche e dei nostri canoni etici, questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché indica che questo nuovo tipo di criminale commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi di sentire che agisce male”.

(Hannah Arendt, La Banalità del Male, testo letto da Caterina Rho)

 

“Durante gli anni in cui si scatenò la furia di Auschwitz, Dio restò muto. I miracoli che accaddero furono opera di uomini, [come ] le azioni di quei giusti che accettarono l’estremo sacrificio per salvare, alleviare, condividere la sorte di Israele”.

(A. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, testo letto da Luca Cortinovis)

 

“Tutti i teologi cristiani hanno citato lo stesso episodio contenuto ne “La Notte” di Wiesel: un bambino è stato impiccato dai nazisti per rappresaglia insieme a due adulti. I prigionieri, come sempre, dovevano sfilare davanti agli impiccati, ma questo bambino era così leggero che agonizzò per mezz’ora. E Wiesel, che doveva sfilare insieme agli altri, sente dietro di sé un compagno che chiede: “E Dio dov’è?” e un altro risponde: “E’quel bambino impiccato”.

(Paolo De Benedetti, La riflessione teologica ebraica e cristiana dopo Auschwitz, testo letto da Martina Stucchi)