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#iorestoacasa con la Bibbia di Antonio Brucioli

La Biblia quale contiene i sacri libri del Vecchio Testamento, tradotti nuovamente da la hebraica verita in lingua toscana per Antonio Brucioli, Venezia, presso Lucantonio Giunti, 1532 – (Cinq. 6.377)

Messa all’Indice dei libri proibiti nel 1559, la Bibbia del Brucioli fu la più letta dagli evangelici italiani in Europa, prima della Bibbia tradotta in italiano da Giovanni Diodati, pubblicata nel 1607. La sua importanza storica consiste nel fatto che divenne punto di riferimento per il pensiero riformato ai suoi esordi in Italia e nel fatto che è la prima traduzione italiana a non basarsi sulla Vulgata di san Girolamo, ma sulla redazione latina di Sante Pagnini, oltre che sui testi originali.

Antonio Brucioli (1498-1566), fiorentino, di solida formazione classica (aveva tradotto testi di Aristotele, Cicerone e Plinio), amico di Pietro Aretino e di Benedetto Varchi, apparteneva alla cerchia di umanisti repubblicani degli Orti Oricellari, profondamente influenzata dal pensiero di Niccolò Machiavelli. Bandito dalla sua città con l’accusa di aver partecipato al complotto del 1522 contro il cardinale Giuliano de’ Medici, si recò a Venezia e da lì raggiunse Lione e poi la Germania. Nei suoi viaggi ebbe modo di approfondire la conoscenza della Riforma, l’opera di traduzione dei testi sacri e l’utilizzo della stampa a scopo di diffusione delle tesi luterane. Tornato a Firenze, venne una seconda volta bandito a causa delle sue propensioni religiose; di nuovo a Venezia, vi pubblicò nel 1530, con l’editore fiorentino Giunti, una versione in italiano dei Vangeli, nel 1531 dei Salmi e quindi, nel 1532, una versione dell’intera Bibbia.

L’esemplare conservato presso la Biblioteca Mai è del tutto integro, diversamente da molti altri, che hanno perso talora il frontespizio, talora le xilografie che illustrano l’Apocalisse e che presentano un’iconografia dichiaratamente antipapista (per esempio: la Bestia in trono che indossa la tiara papale; Babilonia identificata con Roma). Queste xilografie, attribuite a Matteo Pagan, si inseriscono nella tradizione tedesca che da Dürer, attraverso Lucas Cranach, arriva alle immagini di Hans Holbein per il Nuovo Testamento tradotto da Lutero in tedesco e pubblicato a Basilea nel 1523.

Di particolare interesse è il frontespizio, che presenta una serie di riquadri con Le storie dei progenitori, Mosé e Aronne a colloquio con il Faraone, Il passaggio del Mar Rosso, la Natività e la Resurrezione di Cristo, Mosé che riceve le Tavole della Legge e San Paolo che predica nell’Areopago.

La somiglianza, in controparte, fra il riquadro con Mosè che riceve le tavole della legge e la tarsia con l’Arca di Noè, disegnata da Lorenzo Lotto per il coro ligneo di Santa Maria Maggiore in Bergamo (realizzato da Giovanni Francesco Capoferri su cartoni del Lotto; il disegno per la tarsia in questione venne pagato al pittore nel 1525), ha fatto ipotizzare agli studiosi che anche l’ideazione per il frontespizio della Bibbia del Brucioli fosse opera di Lotto, complici altri indizi in virtù dei quali parte della storiografia ritiene il pittore molto vicino ai movimenti riformati: è noto che nel Libro di spese diverse, sorta di diario che l’artista teneva regolarmente, vengono citati, all’anno 1540, due piccoli ritratti di Martin Lutero e di sua moglie.

Non esiste accordo sull’attribuzione del disegno per il frontespizio a Lorenzo Lotto, il quale, va segnalato, era in rapporti di amicizia con la famiglia degli stampatori Giunti; in ogni caso, l’attribuzione non dovrebbe, come è stato giustamente suggerito, essere condizionata da quanto si ritiene, in un senso o nell’altro, sulle posizioni religiose assunte dal pittore. Del resto, il frontespizio è stato impiegato più volte nel Cinquecento, sia per Bibbie riformate che per Bibbie canoniche. Sul piano iconografico, esso esibisce un’elegante cornice, tipica di numerose Bibbie nordiche riformate, e riassume nei riquadri la storia della salvezza, dalla Creazione alla diffusione paolina del Vangelo, secondo l’agostiniana scansione del tempo ante legem, sub lege, sub gratia, illustrata da tre episodi per ogni epoca.

Sfoglia la Bibbia tradotta da Antonio Brucioli sul portale archive.org (la paginazione è  invertita!) e confrontala con l‘edizione del 1538 sul sito della Biblioteca Nazionale austriaca di Vienna.

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Deposito legale. Proroga sospensione

Facendo seguito a precedente comunicazione del 12 marzo 2020, con la quale Regione Lombardia disponeva la sospensione sino al 3 aprile 2020 delle attività connesse all’Archivio della Produzione Editoriale lombarda in forza delle misure adottate con DPCM 8 marzo 2020 e DPCM 9 marzo 2020; richiamata l’Ordinanza di Regione Lombardia n. 514 del 21 marzo 2020 con la quale Regione Lombardia, a tutela della salute della collettività, ha ordinato fino al 15 aprile 2020 l’adozione nel territorio regionale di ulteriori provvedimenti tendenti a ridurre ogni contatto sociale non strettamente indispensabile; viene disposto che, per la durata di efficacia della suddetta Ordinanza regionale (15 aprile 2020), fatte salve eventuali e ulteriori successive disposizioni:

  • i soggetti obbligati al deposito legale (art. 3 L.106/2004) sospendano la consegna della copia dei documenti oggetto di deposito legale agli istituti depositari lombardi
  • gli istituti depositari lombardi (DM 28/12/2007 modificato con DM 10/12/2009) sospendano le attività di ricezione della copia dei documenti oggetto di deposito legale.

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#iorestoacasa con gli Incunaboli miniati

Incunaboli

Si definiscono incunaboli i libri a stampa prodotti in Europa, nella seconda metà del XV secolo, con la tecnica dei caratteri mobili. Dai primi esempi di Johann Gutenberg, in particolare con la Bibbia in latino di grande formato detta delle 42 linee (1453-55), all’anno 1500 si calcola una produzione di circa 35.000 edizioni con 450.000 esemplari diffusi per il mondo. La Biblioteca Angelo Mai ne conserva oggi 2.140; fra di essi il nucleo particolarmente prezioso degli oltre 80 incunaboli miniati.
La raccolta si è formata per gran parte a seguito delle soppressioni napoleoniche, con l’arrivo in Biblioteca nel 1797 delle ricche librerie di conventi e monasteri. Per tale motivo è marcata la presenza di opere religiose, ma non mancano edizioni di testi filosofici, classici, opere scientifiche e storiche, acquisite da conventi e monasteri che avevano aderito alla riforma dell’Osservanza o che erano stati particolarmente sensibili ai nuovi valori dell’Umanesimo.
Nella storia della Biblioteca possiamo individuare la raccolta degli incunaboli già nel 1820, in occasione della stesura di cataloghi manoscritti, uno dei quali specifico per le edizioni del XV secolo. Ciò a dimostrazione del fatto che la principale biblioteca bergamasca, già da allora, si rifaceva a una consolidata tradizione, risalente al XVII secolo, di particolare attenzione a queste pubblicazioni. Proprio nel Seicento nacque infatti il termine ‘incunabolo’, per individuare una tipologia libraria caratterizzata dalla rarità e preziosità degli esemplari superstiti. Nel 1843, in occasione del trasferimento della Biblioteca al Palazzo della Ragione, venne avviato un altro catalogo a libro su iniziativa del bibliotecario Agostino Salvioni, che diede l’incarico a Bartolomeo Secco Suardo; fra i 29 volumi di grande formato del catalogo, che riprendeva la suddivisione per materie già adottata nel catalogo del 1820, con l’aggiunta delle segnature, troviamo quello dedicato alla ‘Sala I’, riservato proprio agli incunaboli oltre che alla giurisprudenza civile e canonica. Nel 1966 il direttore Luigi Chiodi pubblicò l’Indice degli incunaboli della Biblioteca Civica di Bergamo, assegnando ai volumi le segnature tutt’oggi in uso e dando la possibilità di ricerca alfabetica per luoghi di edizione, editori e tipografi. Nel 1989 uscì il volume Codici e incunaboli miniati della Biblioteca Civica di Bergamo, con una descrizione più accurata degli apparati decorativi.
Attualmente può essere consultato il sito web della Biblioteca, che propone il catalogo on line di tutti gli incunaboli posseduti, con ricerca per autore, luogo, contenuto, editore/tipografo, anno, segnatura, parola chiave.
Gli incunaboli della Biblioteca Mai sono segnalati inoltre nei più importanti repertori e cataloghi nazionali e internazionali: l’IGI, l’Indice generale degli incunaboli delle biblioteche d’Italia (1943-1981), consultabile on line, storico punto di riferimento anche per la nostra raccolta; Incunabula Short Title Catalogue (ISTC), creato dalla British Library; Material evidence in incunabula (MEI), progetto cui la Biblioteca ha aderito dal 2013.

Sfoglia gli oltre 80 incunaboli miniati della Biblioteca sul sito della BDL.

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#iorestoacasa con i disegni di Giacomo Quarenghi

Raccolta di Disegni di Giacomo Quarenghi

Dopo la Raccolta tassiana, quella relativa a Giacomo Quarenghi è forse la più importante raccolta speciale della Biblioteca Mai: con i suoi 761 disegni e i cimeli di varia natura, con le lettere e i documenti, con il materiale fotografico acquisito negli anni, la collezione, contenente l’insieme più ampio di disegni quarenghiani esistente al mondo, testimonia anche il profondo legame fra Quarenghi e la Biblioteca civica di Bergamo, un legame che percorre tutta una vita.

Fonte primaria per ricostruire le vicende del celebre architetto è una lettera autobiografica che egli inviò a Luigi Marchesi nel 1785 e che compare nelle Vite de’ pittori scultori e architetti bergamaschi (1793) scritte dal conte Francesco Maria Tassi e continuate da Girolamo e Carlo Marenzi. Nato a Rota d’Imagna nel 1744 da famiglia benestante, Quarenghi venne indirizzato agli studi giuridici e filosofici dal padre, che svolgeva la professione di notaio. L’interesse innato per le belle arti lo portò presto a intraprendere a Bergamo studi di pittura e disegno presso i pittori Paolo Vincenzo Bonomini e Giovanni Raggi. Trasferitosi nel 1761 a Roma, entrò nella bottega di Anton Raphael Mengs e poi del bergamasco Stefano Pozzi, diventando membro dell’Arciconfraternita dei Bergamaschi in qualità di pittore. Non tardò a farsi sentire, in ogni caso, l’interesse specifico per l’architettura, che Quarenghi cominciò a coltivare soprattutto stringendo rapporti con artisti francesi e inglesi residenti a Roma e studiando direttamente i monumenti antichi. Il vero amore del giovane aspirante architetto era però Andrea Palladio, esponente della grande stagione del classicismo rinascimentale.

Gli anni romani, impegnati molto nel disegno, nello studio, in alcuni viaggi a Venezia, Bergamo e nel sud dell’Italia, oltre che in commissioni di rilievo minore, restarono insoddisfacenti per Quarenghi, che colse al volo l’occasione di trasferirsi a San Pietroburgo, al servizio della zarina Caterina II, nel 1779. La scelta si rivelò felice, per la sintonia instauratasi con Caterina, che fece di lui l’architetto più importante nel processo di rinnovamento impresso alla città russa e un vero protagonista nella diffusione del linguaggio neoclassico richiesto dalle corti di tutta Europa. Per quasi quarant’anni Quarenghi restò al servizio degli zar, di Caterina II, di Paolo I e di Alessandro I, dimostrando una creatività senza pari negli innumerevoli progetti e nei disegni di paesaggi, edifici e luoghi, che continuò a produrre ininterrottamente.

A San Pietroburgo Quarenghi realizzò l’Accademia delle Scienze, la Banca di Stato, il Teatro dell’Hermitage, la cappella dei Cavalieri di Malta, l’Ospedale per i poveri, l’Istituto Smol’nyj per l’educazione delle fanciulle nobili; a Tsarskoe Selo, presso San Pietroburgo, il Palazzo di Alessandro; a Mosca, dove completò il palazzo di Caterina, progettò anche le gallerie commerciali sulla Piazza Rossa; molti furono poi gli incarichi per private residenze di nobili russi o di eminenti stranieri residenti a San Pietroburgo.

Quarenghi riuscì a tornare in patria solo per un breve soggiorno fra il 1810 e il 1811, proseguendo poi la sua attività in Russia fino alla morte, nel 1817.

Sin da giovane aveva coltivato anche una grande passione per i libri e per la musica e condiviso questi interessi con bergamaschi presenti a Roma, come Pier Antonio Serassi, segretario del cardinal Furietti che, con il suo lascito, aveva dato avvio alla Biblioteca pubblica di Bergamo, attiva dal 1771. Dopo il trasferimento in Russia, sin dal 1788, Quarenghi cominciò così a far dono alla sua città e alla neonata Biblioteca di libri pregiati e di pubblicazioni contenenti i suoi progetti: è questo il caso del Théatre de l’Hermitage, edito presso l’Accademia delle Scienze di San Pietroburgo (1787), con sette grandi tavole incise; è il caso anche de Le Nouveau Bâtiment de la Banque Impériale de Saint Petersbourg (1791), con otto grandi tavole incise, pubblicazione realizzata presso la Stamperia Imperiale di San Pietroburgo. Sono segnali dell’affezione verso la Città, ma anche della volontà che la Biblioteca civica divenisse luogo di documentazione del suo lavoro.

Tale volontà venne seguita dal figlio Giulio, che nel 1846 donò alla Biblioteca i due tomi di Fabbriche e disegni di Giacomo Quarenghi architetto di S. M. l’imperatore di Russia, pubblicati a Mantova nel 1843-1844, acconsentendo poi, nel 1870, all’acquisizione da parte del Comune di Bergamo, a prezzo alquanto agevolato, del primo nucleo di 535 disegni originali del padre, fra i quali alcuni piccoli album con vedute, testimoni della fase giovanile di una produzione grafica che continuò inesausta per tutta la vita del grande architetto.

Alcuni anni dopo giunse in Biblioteca il prezioso Minutario della corrispondenza di Quarenghi, per dono di Luigi Gelmini e della moglie, quindi altri 77 disegni provenienti dall’archivio del cardinale Giovanni Maria Archetti, nunzio apostolico alla Corte di San Pietroburgo a cui i disegni erano stati donati dal fratello di Giacomo Quarenghi, Francesco Maria, conferiti alla Biblioteca da Giovan Battista Camozzi Vertova. Nel 1888 arrivò un altro album donato dalla nipote di Quarenghi, Antonietta, e nel 1890 altri 24 disegni donati dal mantovano Francesco Tamassia.

La raccolta di disegni conservata dalla Mai è attualmente ordinata in 18 album contrassegnati da lettere dell’alfabeto e sigle: gli album A, B, C, D, E, F, G, H, I, K, L, M, N, frutto della vendita di Giulio Quarenghi; l’album O, ritrovato nel 1958 in una cassa sigillata durante la seconda guerra mondiale; l’album CV (Camozzi Vertova); l’album TAM (Tamassia); l’album Stampe e disegni su cui si trova la scritta «alcuni sono attribuiti a Giacomo Quarenghi»; il disegno n. 40, dell’album n. 28, che faceva parte della raccolta Bergamo illustrata.

I temi che Quarenghi affronta nei suoi album di disegni sono i più vari: talora si tratta di ricordi personali, come in un intimo diario, che ripercorre i luoghi amati (la casa natale in Val Imagna); talora vediamo veri e propri studi delle forme architettoniche ereditate dall’antichità, trasfuse però in una luce vibrante di grande suggestione poetica; talora sono ampie vedute romane colte dall’alto, o angoli meno illustri di una Roma ormai scomparsa.

Del periodo russo, ricchissimo di progetti, a riprova della grande versatilità di Quarenghi, impegnato in tipologie di edifici spesso molto diversi per funzione e dimensione, restano anche disegni per decorazioni di interni di palazzi imperiali o nobiliari; ma soprattutto colpisce la qualità pittorica di molte vedute non destinate specificamente al lavoro progettuale e persino di pura invenzione, in cui l’architetto manifesta la mai spenta passione per la pittura, il gusto raffinato e deciso, la competenza acquisita, anche nella veste di collezionista e di esperto consigliere della corte e dei nobili russi, nella scelta di opere e di artisti.

Vedi una selezione commentata dei disegni e un’approfondimento sulla raccolta, realizzate a corredo delle mostre allestite in Biblioteca nel 2017 per la celebrazione del bicentenario della morte dell’architetto.

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#iorestoacasa con la Vita di Bartolomeo Colleoni

Antonio Cornazzano, Vita di Bartolomeo Colleoni, 1476-77. Mm 270 x 185 – (Cassaf. 2.4)

Il codice, molto prezioso e realizzato in pergamena di ottima qualità, appartenne sin dall’inizio al Comune di Bergamo: sulla legatura, coeva, in seta rossa con ricami in filo d’oro e d’argento, si trova infatti lo stemma della Città di Bergamo, entro sole raggiato, con l’iscrizione «Sola nobilitas est vertus» (solo la nobiltà è virtù) e agli angoli le scritte «Forteza, temperanza, iusticia, prudentia», le quattro virtù cardinali proprie del buon governo.

Il testo rappresenta la fonte più autorevole sulla vita di Bartolomeo Colleoni (Solza, 1395 – Malpaga, 1475), il celebre condottiero bergamasco, dal 1445 capitano generale della Repubblica di Venezia. Il poeta piacentino Antonio Cornazzano poté infatti raccogliere direttamente dalla voce del Colleoni, ormai anziano e a riposo nel suo castello di Malpaga, tutte le informazioni necessarie per stendere poi la biografia, forse su committenza della famiglia Martinengo-Colleoni, negli anni subito seguenti la morte del condottiero e sicuramente prima del 1484, quando il Cornazzano morì a Ferrara.

Il codice qui descritto, versione lussuosa e ufficiale della vita di colui che la Città considerava un eroe dal forte carisma identitario, sembra essere stato realizzato immediatamente dopo la stesura definitiva del testo e sappiamo che nel 1559 venne anche prestato allo storico Pietro Spino, che stava scrivendo una nuova biografia del Colleoni.

Sul f. 7v spicca il ritratto di Bartolomeo, in una bella miniatura a piena pagina. Il condottiero è raffigurato su un cavallo impennato e reca gli attributi del suo rango di comando: la berretta rossa, il bastone e la corazza. Come a voler sottolineare l’importanza del personaggio, la sua figura si staglia su una montagna rocciosa in secondo piano, mentre sullo sfondo in lontananza vediamo un paesaggio collinare con fiumi e una città (Venezia?). La scena è incorniciata da un arco in forme classiche rinascimentali, con colonne azzurre, capitelli in oro, centina rosa e timpano verde sormontato da due delfini azzurri. Alla sommità un braciere d’argento con il fuoco. Un festone di foglie e frutta attraversa l’arco: su di esso sta in equilibrio un putto alato che suona la tuba, proprio in corrispondenza con la testa del Colleoni. Il festone prosegue in basso lungo le colonne e viene annodato a queste da altri due putti alati.

Il volto di Bartolomeo è un ritratto di profilo, all’antica, in segno di nobilitazione, ma comunque di forte impronta realistica nel descrivere le rughe e i segni di un’età ormai matura. Forse ripreso dall’affresco ora nel Luogo Pio di Città Alta (1470-1475, proveniente dalla sagrestia vecchia dell’Incoronata di Martinengo), l’intenso ritratto miniato è di poco successivo.

Si attribuisce la decorazione, che presenta inoltre, negli splendidi fregi delle altre pagine, influssi dell’arte padovana e ferrarese, a Giovan Pietro Birago, miniatore lombardo attivo per gli Sforza a Milano, che firma anche tre dei diciotto Corali del Duomo Vecchio di Brescia, realizzati negli stessi anni del nostro codice.

Sfoglia il codice con la Vita del condottiero sul sito della BDL.

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#iorestoacasa con le Fables di La Fontaine

Jean de La Fontaine, Fables choisies, Parigi, Charles-Antoine Jombert, 1755-1759 – (Sala 21 G 6 15/1-4)

Jean de La Fontaine (Château-Thierry, 1621 – Parigi, 1695) venne eletto, nel 1683, accademico di Francia. Avverso a ogni codificazione del gusto e alla costrizione della fantasia, anticipò atteggiamenti che sarebbero stati propri dell’Illuminismo, partecipando ai salotti della noblesse d’esprit, dove frequentò letterati di spicco quali Racine, Molière e Madame de La Fayette. La redazione delle Favole, la più nota tra le sue opere, si estese su un lungo periodo: tra il 1668 e il 1694 La Fontaine compose ben 240 testi in versi che saranno pubblicati in tre raccolte. Nella prima di queste, scritta per il Delfino di Luigi XIV, affermò di rifarsi alla tradizione di Esopo, le cui invenzioni nascondono profonde verità, proponendo al lettore di riconoscersi nei dialoghi che gli animali intrattengono fra loro. In questa premessa si concentra lo spirito delle Fables: riprendendo sia la tradizione narrativa che fu già di Esopo e Fedro, Plutarco e Ovidio, sia la tradizione medievale francese di storie comiche e satiriche sui costumi sociali, dove i protagonisti che motteggiano vizi e virtù umane sono animali, La Fontaine trasforma il racconto e la sua morale da un semplice esercizio di retorica in un nuovo genere di poesia e di letteratura, in sintonia perfetta con lo spirito del classicismo che tende a far rivivere la saggezza degli Antichi.

La raccolta delle Favole è un capolavoro letterario che fin dalla prima pubblicazione, nel 1685, fu oggetto di splendide edizioni illustrate; tra gli artisti che si sono cimentati con quest’opera, o che ne hanno tratto ispirazione, si ricordano Gustave Doré, Marc Chagall e Salvador Dalì. Delle innumerevoli edizioni, questa delle Fables choisies stampate a Parigi in quattro tomi, è considerata la più bella: allestita nel grande formato in-folio e impressa su carta d’Olanda, che offre un lato morbido adatto ad accogliere la stampa del testo e un lato ruvido per le incisioni calcografiche, è impreziosita dai disegni di Jean-Baptiste Oudry, ritoccati da Charles-Nicolas Cochin e incisi da numerosi artisti. Oudry (Parigi, 1686 – Beauvais, 1755), pittore, incisore, disegnatore di porcellane e di cartoni d’arazzo, che si ammirano oggi nei castelli di Fontainebleau e di Compiègne, univa alla naturalezza del tocco una ricerca accurata del dettaglio; eccellente pittore di animali, seppe interpretare magistralmente le scene immaginate da La Fontaine e il suo canone compositivo (presentazione della scena e dei personaggi, dialogo fra i protagonisti, morale conclusiva del racconto): ne sono un chiaro esempio le favole Il Gallo e la volpe e Il corvo e la volpe.

Sfoglia i quattro tomi delle Fables sul sito della Biblioteca di Oldenburg.

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#iorestoacasa con la rivista Emporium

Emporium: rivista mensile illustrata d’arte, letteratura, scienze e varietà, Bergamo, Istituto Italiano d’Arti Grafiche, 1895-1964 – (Sala 23.7).

Emporium nacque nel 1895, lo stesso anno in cui si inaugurò la prima Biennale di Venezia, e vide le stampe fino al 1964. L’intento del progetto, molto innovativo per i tempi, venne espresso con chiarezza nel manifesto programmatico del dicembre 1894 dagli ideatori, Paolo Gaffuri, fondatore dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche, e Arcangelo Ghisleri: «Popolarizzare l’alta coltura, i risultati della scienza, il fior fiore delle arti, non solamente dell’Italia, ma di tutto il mondo civile; con notizie e monografie precise, brevi, succose, dovute a specialisti, e accompagnate sempre da illustrazioni, che siano documenti, presi dal vero e sui luoghi, riprodotti con sistemi ultimi dell’arte grafica più progredita; tale l’intento della nuova Rivista».

Lo spirito della pubblicazione, che doveva essere «universale e bella, utile e attuale, italiana e cosmopolita, ben illustrata, rivolta a tutti, nello stesso tempo di lusso e popolare», è rappresentato anche da un’accurata scelta del titolo, preferito tra i molti proposti, in quanto breve e sonoro. Il programma venne rispettato e per 840 fascicoli mensili, suddivisi in 138 volumi semestrali, la rivista propose ai lettori, a livello specialistico, ma in forma divulgativa e piacevole, scritti su tematiche artistiche riguardanti movimenti e correnti, arte antica, arte contemporanea, architettura, musica, letteratura, cinema, arti decorative e applicate, pubblicizzazione di musei e mostre; si occupò di scoperte scientifiche, conquiste tecnologiche e industriali, attualità, moderne forme di vita sociale, moda; affrontò la divulgazione storica. Il tutto corredato da immagini di altissima qualità che si pongono in rapporto diretto con la scrittura, reso possibile da una ricerca all’avanguardia sul piano tecnico-tipografico, parte integrante dell’operazione culturale nel suo insieme.

Lavoro preliminare e poi assiduo di Gaffuri fu la raccolta di riviste internazionali, alla ricerca continua di articoli da tradurre, cliché fotografici da acquisire, modelli di comunicazione inediti, in grado di ricavare spazi commerciali e culturali ancora inesplorati, che facessero da traino anche per il resto della produzione editoriale dell’Istituto, dedicata all’arte, alla cartografia, alle scienze.

Le riviste da cui Emporium ha ricevuto maggiori influssi sono l’inglese The Studio (1893), da cui eredita il carattere cosmopolita e la spinta verso la modernità, e le tedesche Pan (1895) e Jugend (1896), da cui trae il gusto per la divulgazione e per i temi popolari. Non mancano l’umorismo e la satira, accompagnati da vignette e grafica caricaturale, i cui emuli si identificano nell’Illustrated London News, nel settimanale parigino Le Rire, nel tedesco Simplicissimus.

Il messaggio pubblicitario, utilizzato fin dalle prime uscite e introdotto seguendo il modello di alcuni prototipi americani ed europei, contribuì a rafforzare il carattere divulgativo della rivista.

L’attenzione dei fondatori per le arti contemporanee e per lo spirito modernista interdisciplinare, tipico dell’Art Nouveau, emerge dalle splendide copertine, che cambiano di mese in mese e riflettono il variare degli stili e del gusto. L’originalità della veste grafica complessiva di Emporium e la gravitazione intorno alla rivista di un folto gruppo di artisti e disegnatori operanti nel campo della cartellonistica e della grafica pubblicitaria, unitamente alla collaborazione di importanti studiosi e artisti italiani, connotano la rivista come uno dei prodotti editoriali più affascinanti e significativi del tempo.

Sfoglia Emporium sul sito della Scuola Normale Superiore di Pisa.

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#iorestoacasa con le Leggende agiografiche

Bottega bergamasca, Leggende agiografiche, 1492-1493 (Codice Suardi). Mm 160 x 105 – (Cassaf. 3.3)

Il codice, cartaceo, è noto anche come ‘Codice Suardi’, per lo scriba, che si firma Antonio Suardi, con le date 1492 e 1493, in diversi punti del manoscritto, e per lo stemma della famiglia Suardi, che compare ai ff. 105r e 134r. Purtroppo nessuna notizia certa abbiamo per identificare questo membro della nobile famiglia bergamasca, né sappiamo in quale modo il codice sia giunto in Biblioteca Mai, dove risulta comunque già nel catalogo del 1845.

Il volumetto contiene 224 disegni a penna e acquarello, che illustrano scene agiografiche, di guerra e apocalittiche. Fra i santi di cui è narrata la vicenda troviamo: sant’Antonio, santa Margherita, san Cristoforo, san Basilio, sant’Uberto, san Giovanni Boccadoro; a questo si aggiungono testi diversi, come la storia del morto e del vivo, la narrazione della fine del mondo, un breve ricettario per i diversi mesi dell’anno, le sette allegrezze di Maria, le imprese di Uson Casano in Albania, il discorso della morte al peccatore, la storia della guerra del re di Spagna contro il re di Granada.

I disegni sono di stile popolaresco, delineati a grossi tratti di penna e colorati a macchie di acquarello rapide e talora imprecise; l’impostazione è molto libera in rapporto al testo e la composizione quasi dilettantesca. L’interesse del codice è comunque grande, proprio per il carattere popolare che traspare chiaramente non solo dai disegni, ma anche dai testi, in cui l’autore, probabilmente non identificabile con Antonio Suardi, «assume l’abito del cantastorie», coinvolgendo il lettore in «narrazioni colme di morti, demoni, angeli, stupefacenti martìri e miracoli meravigliosamente ingenui» (Luigi Chiodi, 1957). La lingua impiegata, in rima, è un volgare intriso di forme dialettali proprie dell’Italia settentrionale, testimone prezioso di una forma letteraria popolare, che doveva avere come scopo la recitazione o addirittura la drammatizzazione, come proverebbe l’invito ad ascoltare, spesso rivolto a un ipotetico pubblico, e come traspare anche dalle stesse illustrazioni, forse schemi per eventuali scenografie.

Di particolare effetto sono i disegni sulla fine del mondo e il giudizio universale, ricchi di pathos e di carica visionaria, capaci di trascinare il lettore nello spettacolo terrificante della forza divina che stravolge l’ordine naturale; o anche le affollate scene della guerra di Granada, che traducono in un piacevole dialetto figurativo la lunga e nobile tradizione lombarda dei romanzi cavallereschi miniati per le corti.

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#iorestoacasa con lo Statuto di Bergamo del 1453

Jacopo da Balsemo, Statuta Bergomi 1453. Mm 365 x 270 – (Sala I D 9.8).

La Biblioteca conserva 47 esemplari di Statuti della Città di Bergamo dal 1248 al 1493. Nel 1856 il Consiglio comunale depositò presso la civica biblioteca, allora in Palazzo della Ragione, gli antichi statuti fino ad allora conservati nell’archivio municipale, i quali vennero riuniti nella Sala I, insieme ai testi giuridici. Il codice qui illustrato è appartenuto senza dubbio fin dall’origine al Comune di Bergamo, era disponibile alla consultazione e fu usato fino al 1491, quando si approntò un’edizione a stampa. Di questa destinazione pubblica il manoscritto porta tutte le caratteristiche di ufficialità, come il costante ripetersi dello stemma cittadino, in oro e vermiglio, all’inizio delle dieci Collationes, le serie di norme che regolavano la vita della Città, con relative sanzioni, sia sul piano pubblico che privato. Il testo reca poi la ratifica, sottoscritta dal notaio cancelliere, da parte dell’autorità emanante lo Statuto, il vicepodestà Andrea Leon, divenuto podestà nel 1454. Furono in seguito aggiunti documenti relativi alla donazione del Luogo Pio voluto da Bartolomeo Colleoni nel 1466, il Testamento di Colleoni (in Malpaga, il 26 ottobre 1475) e una copia della ducale di Giovanni Mocenigo ai rettori di Bergamo con la quale si prediligono le figlie dei soldati nell’assegnazione della dote elargita dal Pio Luogo Colleoni (1480).

La decorazione miniata si concentra al f. 1r: l’iniziale P («Primo») è istoriata con l’immagine di Maria e il Bambino tra san Vincenzo e sant’Alessandro, i protettori della Città, insieme alla Vergine, cui è dedicata la chiesa principale; un fregio nel margine superiore, a foglie d’acanto, include la figura di Dio Padre, invocato nel testo per il benessere di Venezia e di Bergamo, mentre nel margine inferiore fogliame, frutti e fiori formano volute che incorniciano, a sinistra, lo stemma oro e vermiglio del Comune di Bergamo, a destra il leone rampante, stemma di Andrea Leon.

Il codice è stato restaurato nel 2019, con importanti interventi che hanno riguardato la pulitura dei fogli, la ricucitura dei fascicoli e, in particolare, la legatura originaria in assi lignee, modificata nella seconda metà dell’Ottocento.

Il miniatore è Jacopo da Balsemo, che qui offre la prima prova con data certa di una produzione vastissima, alla direzione di una bottega che fu attiva per mezzo secolo e fu legata alle principali istituzioni cittadine, in posizione che sembrerebbe ‘monopolistica’ (cfr. anche la serie dei Corali per Santa Maria Maggiore, iniziata proprio in questi anni). Formatosi probabilmente in ambito milanese nel quinto decennio del XV secolo, alla lezione appresa a Milano, in particolare dal Magister Vitae Imperatorum, il Balsemo rimarrà sostanzialmente fedele senza particolari evoluzioni stilistiche, ripetendo un apparato decorativo elegante, connotato dalle tipiche infiorescenze carnose, e da una narrazione pacata, talora corsiva, ma non priva di delicati accenti e comunque in grado di prestarsi in modo versatile alle più diverse occorrenze: libri liturgici, statuti (uno commissionatogli dal giureconsulto Antonio Bonghi intorno al 1480 e recante un bel ritratto del committente), cartografie.

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#iorestoacasa con l’Erbario di Guarnerino da Padova

Antonio Guarnerino da Padova, Herbe pincte, 1441. Mm 290 x 210 – (MA 592)

Il codice testimonia l’alta considerazione in cui nel Quattrocento si teneva l’erboristeria, coltivata con interesse scientifico, ed è emanazione della cultura medico-famacologica padovana sviluppatasi nell’Università. Un primo esempio di tali conoscenze è l’Erbario Carrarese del 1390 circa, conservato alla British Library di Londra: un riassunto in padovano di un trattato medico arabo, opera dell’eremitano Giacomo Filippo, per conto di Francesco Novello da Carrara.

L’illustratore del nostro codice si firma a f. 44r: Antonio Guarnerino, figlio di Bonaventura da Padova, con l’indicazione della città di Feltre (vivace centro umanistico, ben noto per la produzione di codici) e la data 1441, che colloca quindi l’Erbario della Mai in un’epoca piuttosto precoce.
Guarnerino è stato identificato con un pittore documentato nel 1404 in Castelvecchio e nel Palazzo degli Scaligeri a Verona. La firma è accompagnata da un’immagine dell’autore che si presenta come un botanico (abito ornato da pelliccia, proprio dei medici) e mentre regge una pianta e un coltello (o un pennello).

La prima parte dell’Erbario, contenente il volgarizzamento del De viribus herbarum di Macer Floridus e un estratto de El libro agregà de Serapion, tratta dei rimedi semplici, 74 piante la cui illustrazione, a penna e acquarello, è inserita in piccole scene che sembrano rifarsi alla tradizione dei Tacuina sanitatis, libri miniati lombardi del XIV secolo con suggerimenti per la salute mediante l’uso di erbe, l’alimentazione corretta, il corretto comportamento. Forse in questa parte l’illustratore aveva davanti immagini più antiche alle quali rifarsi, lo stesso Erbario Carrarese, o altri codici trecenteschi, come testimoniano gli elementi della moda esibita, che non corrisponde a quella in voga nell’anno di esecuzione.

La seconda parte del codice riporta grandi disegni di 152 piante, raffigurate con maggiore o minore realismo a seconda della possibilità di una conoscenza diretta da parte del pittore. Si spiega così che le piante montane, come ad esempio la genestrela piçola (primula, f. 47r), il ciclamen (ciclamino, f. 48r), la pulmonaria (polmonaria, f. 48v), la trinitas (erba trinità, f. 108r) e l’eleborus niger (elleboro nero, f. 108v), siano rappresentate con buona aderenza al dato naturale, e talora persino nel loro habitat sullo sfondo di rocce dolomitiche. Altre sono invece riprodotte secondo modelli botanici detti schemata, non naturalistici, in cui le piante sembrano già pressate e pronte per la conservazione in erbario e per lo studio teorico delle loro parti.

L’importanza per la storia della botanica e per la storia dell’arte dell’erbario conservato a Bergamo, come del coevo Codex bellunensis, sempre della British Library, consiste proprio in questo fatto: nel segnare il lento distaccarsi, nella raffigurazione delle piante, dallo schematismo simbolico e astratto medievale, rinnovando l’attenzione per il dato naturale già presente nella cultura tardogotica (si veda con quale mirabile esattezza Gentile da Fabriano raffigura il trifolium pratense nel prato fiorito del Polittico di Valle Romita a Brera) con una più appropriata concezione dello spazio e delle forme, desiderata dall’incipiente gusto rinascimentale. La riflessione maturata in ambito universitario sulle virtù terapeutiche della flora e sull’importanza di sapere riconoscere e descrivere con precisione le piante officinali ebbe modo di esprimersi anche nella volontà di documentarne il vero aspetto attraverso l’immagine dipinta in modo obiettivo ed esatto, possibilmente dal vero.

In linea con l’impostazione dell’Università di Padova, il testo cita spesso autori arabi: il medico Abu Maser al Muchtar ibn Botlan, di Malaga (XI sec.), convertitosi al Cristianesimo e quindi molto celebre in Occidente; il geografo al-Idris e infine il più grande medico arabo, Abdallah ibn Ahmad (XIII sec.), cui si deve l’inventario generale e ufficiale della materia medica (farmacologia, erbe, rimedi semplici).

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